giovedì, agosto 03, 2023

L’ANNIVERSARIO DELLA STRAGE DI BOLOGNA. Le radici della premier


DI CARLO BONINI

C’è qualcosa di profondamente disturbante e tuttavia esemplare nel tartufismo lessicale con cui la presidente del Consiglio ha voluto ricordare la strage che, quarantatré anni fa, uccise alla stazione di Bologna 85 innocenti (i feriti furono 200), annegandone la memoria in una definizione politicamente neutra. «Uno dei colpi più feroci sferrati dal terrorismo all’Italia». E questo, a dispetto delle parole del capo dello Stato Sergio Mattarella, che di quella strage ha voluto ricordare la matrice neofascista. 

E persino di quelle del presidente del Senato, Ignazio La Russa, che dopo aver malamente pattinato su via Rasella e le Fosse Ardeatine deve evidentemente aver pensato che su Bologna e la memoria di questo Paese non gli sarebbero state consentite altre stravaganze in orbace. 

Nelle parole di Meloni non può esserci evidentemente l’indizio di un deficit di conoscenza della storia del Novecento. E neppure la sua anagrafe giustificherebbe una lettura così politicamente e storicamente sciatta di una vicenda su cui, da 43 anni, è proseguita ininterrotta la ricerca della verità giudiziaria, il lavoro degli storici e la resiliente costruzione della memoria da parte di coloro ai quali, quel 2 agosto 1980, lo stragismo nero portò via una figlia, un figlio, un fratello, una sorella, un padre, una madre, una moglie, un marito, una persona amata. 
Già, nelle parole di Meloni c’è un calcolo. 
Spregiudicato e ideologico. Che sono poi i due connotati distintivi dell’identità politica della presidente del Consiglio, a dispetto delle intermittenti quanto fasulle pose da moderata. 
Di fronte a una strage che, nel giudizio unanime degli storici prima ancora che delle sentenze passate in giudicato, segnò l’acme del decennio conosciuto come quello della strategia della tensione e cominciato con la bomba di piazza Fontana (12 dicembre 1969), e di fronte a una mole recente e crescente di evidenze in grado di documentarne le responsabilità nella saldatura tra apparati deviati dello Stato, terrorismo neofascista e consorterie massoniche (la P2 di Licio Gelli), Meloni indica una “verità alternativa”. Rianima, senza nominarla e lasciando che a farlo siano i suoi spiccia faccende di partito, la fantomatica “pista palestinese”. Invita, genericamente, a cercare altrove “la verità”, promettendo l’impegno alla desecretazione di ulteriori atti ancora coperti da segreto (di cui si guarda bene di indicare la natura o la ipotetica rilevanza), accreditando così, implicitamente, che quella che è stata sin qui accertata (e che da presidente delConsiglio avrebbe se non il dovere quantomeno la decenza di rispettare o fingere di rispettare) non esiste. O, peggio, sarebbe altamente opinabile perché figlia di un Novecento politicamente inquinato dall’egemonia del pensiero di sinistra e dei suoi alfieri. 
Nella magistratura, nell’informazione, nelle università. 
E tuttavia, la questione che le parole di Meloni pongono non è solo nell’enormità di un’omissione storica e politica. Ma nel perché ritenga o si senta o sia obbligata a proporla, a coltivarla, a farne un progetto di costruzione di una memoria nuova e alternativa. La presidente del Consiglio ben avrebbe potuto infatti inscrivere la strage di Bologna e le responsabilità dei suoi mandanti e autori nella lisa formula che vuole quella degli anni ’70-’80 come la stagione degli “opposti estremismi”. Categoria del pensiero politico in cui, normalmente, si rifugia la destra italiana per evitare i tornanti drammatici della sua Storia e delle sue responsabilità. E che lei stessa aveva utilizzato nel suo discorso di insediamento da premier ricordando la morte di Sergio Ramelli. Ma, questa volta, Meloni non lo ha fatto. E la risposta va probabilmente rintracciata in una circostanza. 
Nella riscrittura delle responsabilità della strage di Bologna, nella loro ostinata negazione a dispetto delle evidenze, c’è infatti una parte significativa del mito fondativo della destra neofascista italiana. Di cui Giorgia Meloni non solo è figlia naturale, ma espressione. Altro che “i Gabbiani” di Colle Oppio o i fascisti del terzo millennio. Meloni non può recidere quelle radici neofasciste semplicemente perché sono le sue. E perché a quelle radici, a quel mondo limaccioso cui fece appello nel 2012 chiamando a raccolta i cascami della destra italiana sotto le insegne di Fratelli d’Italia, deve ciò che è oggi. Un mondo che, a dispetto delle generazioni, ha continuato a coltivare il mito dell’innocenza del terrorismo nero e dei suoi protagonisti rispetto al coinvolgimento nelle pagine più drammatiche della violenza stragista italiana. 
Non andrà dunque dimenticato questo 2 agosto 2023. 
Né le parole con cui Meloni l’ha accompagnato. Perché in quelle parole, nel progetto di riscrittura della memoria che lasciano intravedere, non ci sono soltanto l’ennesima lacerazione e oltraggio alle vittime di quel giorno di sangue di 43 anni fa. C’è l’ombra raggelante di quel cuore di tenebra italiano che i meno giovani hanno conosciuto nel secolo scorso. E dai cui fantasmi questo Paese sembra incapace di affrancarsi una volta per tutte. 

La Repubblica, 3 agosto 2023

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