di Salvo Palazzolo
L’ultimo ricordo del suo papà è una passeggiata nella piazza di Ficuzza, mano nella mano. «Alle dieci di sera era venuto a prendermi al bar Cavarretta, dove stavo giocando a calcioballila», racconta Benedetta Russo.
Quel 20 agosto 1977 i sicari di Riina erano già appostati per colpire il comandante del Nucleo investigativo dei carabinieri di Palermo. Il tenente colonnello Giuseppe Russo ebbe appena il tempo di lasciare la figlioletta, che aveva 9 anni, davanti alla porta di casa e tornare in piazza per parlare con un amico. «Saranno passati dieci, quindici minuti: io e mamma sentiamo degli scoppi fortissimi, come fuochi d’artificio, quasi fosse il Festino — ricorda oggi la figlia del colonnello — Mamma dice: “ Strano, oggi non è la festa del patrono di Marineo”. La cosa che ci rende ancora più perplesse è che subito dopo questo rumore assordante subentra un silenzio tombale, terrificante, agghiacciante. Io mi affaccio alla porta- finestra e mi metto le mani davanti alla bocca urlando: “Papà, papà, cos’è successo al mio papà?”». Assieme al colonnello Russo avevano ucciso un suo amico, il professore Filippo Costa.
Il libro
Quarantasei anni dopo quella sera, una vita fa, Benedetta Russo ha deciso di fissare i suoi ricordi in un libro. E ne è venuto fuori un racconto commovente. Nelle 256 pagine di “Mai il mio destino è vivere balenando in burrasca” c’è anche, e soprattutto, la madre, Mercedes Berretti, fiorentina, donna coraggiosa, che si trovò ad affrontare anni drammatici dopo l’omicidio del marito. «Quella sera mi abbracciò dicendo che papà non era morto, solo gravemente ferito — scrive Benedetta Russo — La verità me la disse prima che iniziasse l’anno scolastico. Ma quella sera era stato già uno shock, persi quasi la parola per un anno intero».
Accadde anche dell’altro. «Tre giorni dopo la sepoltura sparirono tutti. E non solo nei giorni di quella torrida estate. Anche dopo» . La vedova Russo si ritrovò incredibilmente senza alcun aiuto da parte delle istituzioni. «Un pomeriggio — così prosegue il racconto — mamma chiese a don Peppino, il portiere dello stabile dove abitavamo, se conoscesse qualche famiglia che aveva bisogno d’aiuto in casa. E così, all’età di 48 anni, iniziò a fare la donna delle pulizie a casa di altri» .Solo dopo nove anni, la Regione si ricordò della vedova Russo, assumendola grazie alla legge per i familiari delle vittime di mafia.
L’investigatore
Questa è la storia amara di un coraggioso uomo delle istituzioni e della sua famiglia che sono stati dimenticati per tanto, troppo tempo. Eppure Russo, dal 1969 al vertice del Nucleo investigativo del comando provinciale, era stato il principale collaboratore dell’allora colonnello Carlo Alberto dalla Chiesa, comandante della Legione. A metà degli anni Settanta, l’allora maggiore Russo per primo comprese che il giovane mafioso Salvatore Riina stava conquistando sempre più prestigio a Palermo e che la sua latitanza andava fermata al più presto. L’ufficiale trovò una buona pista d’indagine: il 6 agosto 1974 i suoi uomini fecero irruzione in un appartamento di largo San Lorenzo. Quinto piano, scala B. I carabinieri trovarono i mobili nuovi e le bomboniere di un matrimonio, sui bigliettini era scritto a mano: “ Salvatore- Antonietta sposi, 16/ 4/ 1974”. In casa c’era anche una foto dello sposo, Totò Riina, scattata a Venezia. Un ospite dell’appartamento provò a nascondere tutto: era Leoluca Bagarella, il fratello di Ninetta, all’epoca quasi un incensurato, ma aveva tre pistole. Quella casa era una miniera per le indagini: l’appartamento risultò intestato a una società, la Agrisicula, amministrata da Pino Mandalari, commercialista e gran maestro massone, che gestiva una girandola di società dei boss corleonesi.
L’audizione
Benedetta Russo ricorda che alla fine del 1974 il padre era stato convocato dalla commissione parlamentare Antimafia: nelle sue parole, rimaste in un verbale, c’è una visione moderna e attuale di Cosa nostra. «È un’organizzazione unica» , spiega l’ufficiale, anticipando di sette anni le indagini di Falcone fondate sulle dichiarazioni di Buscetta. Russo, che ha diverse fonti molto qualificate nei clan, ha già intuito dove sta andando l’organizzazione mafiosa. Prova a fermare i boss con il “ rapporto dei 114”, che dà luogo all’omonimo processo, ma le condanne sono minime. « Un’occasione mancata», la definisce Russo davanti all’Antimafia, mentre denuncia la pericolosità dei mafiosi corleonesi e le loro alleanze a Palermo, soprattutto con le cosche di San Lorenzo e Resuttana. Se solo avessero ascoltato le sue intuizioni, la storia sarebbe cambiata.
I killer e i complici
Invece, Bagarella venne scarcerato. E uccise prima il colonnello Russo, poi nel 1979 il cronista del Giornale di Sicilia Mario Francese e il capo della squadra mobile Boris Giuliano, tutti impegnati a raccontare e delineare il nuovo potere corleonese alle prese con il grande affare della diga Garcia. Alla fine, il colonnello Russo ebbe la stessa sorte di Borsellino: un pesante depistaggio tenne in carcere degli innocenti per l’omicidio. L’ennesimo oltraggio a un uomo che cercava la verità. Solo nel 1997 furono condannati Riina, Bagarella, Michele Greco e Bernardo Provenzano.
«Adesso scrivo perché mio padre non venga più dimenticato » , dice la figlia Benedetta. «Scrivo per ripristinare una verità che troppo a lungo è stata calpestata, oltraggiata, dimenticata e addirittura cambiata da alcuni che non hanno conosciuto la storia di questo eroe, mio padre».
La Repubblica Palermo, 19 agosto 2023
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