Don Francesco Romano / Don Cosimo Scordato
La recente notizia di decine di cambiamenti di parroci e amministratori parrocchiali nella diocesi ha suscitato un certo interesse, ma forse sarebbe meglio dire curiosità; non a caso essa è stata ripresa dalla stampa locale. Tante persone si sono sentite coinvolte, soprattutto nel caso in cui è stata interessata la propria parrocchia. Certamente quando si parla di «cambiamento», in qualche modo si è incuriositi dal fatto che qualcosa si muove e si aspetta qualche novità; anche se sorge subito inevitabile la domanda: ma si cambia in meglio o in peggio?
Non ci sentiamo autorizzati a dare una risposta alla suddetta domanda e auguriamo alle comunità e ai confratelli coinvolti che la risposta possa essere data in senso positivo. Sentiamo, però, di dovere offrire qualche considerazione sul metodo, ovvero sul modo come vengono portati avanti detti cambiamenti.
Sappiamo che qualcosa è normato dal diritto canonico, ma ci chiediamo: che posto ha la comunità parrocchiale in queste decisioni? Attualmente ci sembra che la comunità abbia solo il compito di «assistere» e, conseguentemente, di accettare supinamente sia che il proprio parroco venga rimosso sia che ne venga assegnato uno nuovo.Ebbene, pur con la consapevolezza che si tratta di far maturare nuove prassi, riteniamo opportuno, se non addirittura doveroso, il coinvolgimento diretto della comunità nella scelta del cambiamento. Detto coinvolgimento dovrebbe essere frutto di incontri tra il vescovo e le comunità interessate. È auspicabile che la comunità esprima il proprio gradimento nei confronti del proprio parroco, attraverso periodiche consultazioni, che hanno il compito di migliorare la qualità della relazione comunità-parroco. Vale la pena ricordare che il tanto decantato concetto di ministero non è as-soluto, ma relativo-a, ovvero va pensato e si qualifica in quanto, pur restando esso grazia di Dio, si realizza nei confronti di una comunità data. In questo senso il parroco è al servizio della comunità e non viceversa; nei confronti di essa egli deve offrire il meglio di se stesso senza avere comportamenti di prevaricazione, come quando impedisce la partecipazione responsabile di tutti i suoi membri; né egli deve imporre la sua presenza in tutte le attività, rischiando di fare coincidere la parrocchia con se stesso.
Quindi non è peregrino che la comunità possa esprimere il proprio parere sulla qualità del servizio del proprio parroco e ciò non per recriminazioni, piuttosto per la voglia di partecipazione e di corresponsabilità in tutta la vita parrocchiale.
Inoltre andrebbe promossa una certa «pubblicità» su detti cambiamenti; dovrebbero essere pubblici e trasparenti i criteri che presiedono alla designazione di un parroco. Tra questi criteri il primo dovrebbe essere il riconoscimento della dignità di ogni comunità parrocchiale; va superata l'idea che ci sono parrocchie di Serie A o di Serie B e che gli spostamenti non debbono essere espressioni di mire carrieristiche: ogni comunità è una porzione preziosa del corpo di Cristo. La qualità e la competenza del servizio vanno garantite a ogni comunità del centro o della periferia; ogni nuova assegnazione, pur con le comprensibili differenze, si muova nell'ambito di una fondamentale continuità tra i parroci che si avvicendano. Altro criterio è quello che potremmo chiamare la receptio, ovvero l'accoglienza del nuovo parroco da parte della comunità; il diritto canonico non dà spazio a questo aspetto, come se la comunità non possa esprimere i suoi desiderata nei confronti del nuovo parroco; al diritto basta che ci sia la «nomina ufficiale», per considerare automatico il rapporto del parroco con i fedeli. Inoltre esprimiamo il nostro dissenso nei confronti dell’espressione giuridica «presa di possesso»! La comunità e il suo territorio non devono essere «posseduti»; hanno bisogno di essere attentamente conosciuti e ben voluti, rispettosamente serviti e solo così, potrà maturare l'onore per il parroco di essere accettato.
GdS, 10/8/23
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