Foto di Francesco Francaviglia, Le donne del digiuno, 2014, Postcart Edizioni |
Il 15 agosto del 2018 ci lasciava Rita Borsellino. Rita ha vissuto gli ultimi ventisei anni della sua vita per ottenere verità e giustizia (mai vendetta!) sulla morte di suo fratello Paolo e al contempo ricordiamo il suo impegno politico e associativo per contribuire a costruire una società migliore, più giusta, più consapevole e più responsabile.
Vogliamo oggi ricordarla pubblicamente dando risalto alle sue parole sul tema del "perdono", pronunciate a Roma nel marzo del 2001 presso la parrocchia di Santa Melania e far giungere un abbraccio ai suoi figli e alle sue nipoti.
«E allora quando io parlo di perdono, oggi ne parlo in maniera diversa da come ne parlai all'indomani della morte di Paolo. Ricordo che in mezzo alle macerie di via D'Amelio, mi si avvicinò un giornalista con il microfono in mano, me lo mise sotto il naso e mi chiese: “Ma lei perdona gli assassini di suo fratello?”. E io, per togliermelo di mezzo, per non rispondergli in maniera violenta - anche perché non ne sono capace, perché davanti ad una domanda di questo genere, davvero cascano le braccia - gli risposi istintivamente di sì. Forse me lo ha detto la mia educazione, il mio essere cattolica, quasi fosse obbligatorio perdonare chi ti ha fatto del male. Gli dissi: “Io ti ringrazio, perché mi hai fatto riflettere, perché non mi aveva neanche sfiorato quest'idea, non ne ho avuto il tempo, né la possibilità. Ma dopo che tu me lo hai chiesto, ho cominciato a pensarci su e ho seguito un percorso, un ragionamento che mi ha portato poi a rispondere in maniera consapevole a questa domanda, a rispondere a me prima di tutto, perché era questo che volevo capire io, rendermi conto io. È un percorso, un ragionamento difficile, complicato, pieno d'insidie anche, pieno di sì e di no che ti tirano da una parte e dall'altra. Mi sono resa conto che per dare una risposta a questa domanda, devi mettere insieme la testa e il cuore. Non puoi rispondere solo con la testa, non puoi sentire solo quello che ti dice il cuore perché altrimenti, quello che tu dici poi in quel momento, resta incompleto, mutilato. È un percorso che credo non finisca mai, un percorso difficile e complicato, ma che ti fa prendere coscienza. Io ci ho ragionato sopra e mi sono resa conto che, come vi dicevo prima, che se è vero che io ho ricevuto, il dono di non odiare, il dono di non cercare vendetta, è un dono che ho ricevuto da Dio ed un dono che io devo condividere con qualcun altro. Non posso tenerlo stretto per me e se c'è qualcuno con cui devo condividerlo, è proprio con chi mi ha fatto del male. Perché altrimenti non è vero, non è sincero tutto questo. È facile stare da una parte, isolandosi completamente da quell'altra. Tu devi metterti davvero davanti a chi ti ha fatto del male e rifare questo ragionamento, lo devi verificare in qualche modo, collaudare. E ancora una volta ho trovato un grande aiuto in questo percorso così complicato e così tormentato. Ero davanti alla televisione dove proiettavano le immagini della cattura di Totò Riina, questo ometto fotografato quasi per scherno sotto le fotografie di Paolo e Giovanni, nei locali della Questura di Palermo - non so quanti di voi lo ricordano - un ometto dimesso, piccolo, malvestito, quasi impacciato, che non sapeva dove mettere le mani, ma con uno sguardo che balenava sotto le palpebre che dava davvero i brividi. E mi chiedevo in maniera molto sofferta e quasi con paura cosa provavo nei confronti di questa persona, perché, vedete, altro è dire che non si odia, che non si prova rancore nei confronti di qualcuno che non conosci e altro è poi vederlo in faccia, materializzato. Allora è un po' diverso. Lo guardavo quasi con timore che affiorasse qualcosa che mi faceva paura. Allora ho sentito che dietro di me, piano piano, si era avvicinata mia madre. Mia madre aveva 86 anni, aveva visto morire suo figlio, perché Paolo veniva quel giorno a casa mia a trovare mia madre che non stava bene. C'era un rapporto fortissimo tra loro, aveva telefonato anche lui dicendo: “Sto venendo” e poi aveva avuto soltanto il tempo di pigiare il campanello del portone di casa. Mia madre aveva sentito il suono, sapeva che era Paolo, ed era scoppiato il finimondo. Muri che crollavano, tetti che si sbriciolavano, schegge da tutte le parti, pareti che si aprivano, sirene impazzite, fiamme dovunque. Mia madre sapeva che in tutto questo Paolo moriva. Mia madre si avvicinò a piccoli passi, non l'avevo sentita, sentii dietro di me la sua voce che diceva: “Che pena mi fa quell'uomo!”. È stato per me un messaggio straordinario. Mia madre aveva visto l'uomo. Io ancora me lo chiedevo, non c'ero riuscita. Mamma con lo stesso sguardo di Paolo, aveva visto l'uomo dentro Totò Riina e aveva visto un uomo che le faceva pena, ma perché le faceva pena? Perché si chiedeva come quell'uomo si era potuto ridurre così, come quell'uomo aveva spento, aveva rischiato di spegnere quella scintilla umana che aveva dentro, quella scintilla divina che aveva dentro. Come aveva fatto? Erano le stesse domande che si faceva Paolo, quando chiedeva: “Chi sei, come giocavi, cosa facevano i tuoi genitori, perché non sei andato più a scuola?”. L'aveva racchiuso in una parola sola, mia madre, e io l'ho assorbito, l'ho penetrato, ho capito quello che lei istintivamente in quel momento mi aveva trasmesso».
Rita Borsellino, Parrocchia di Santa Melania in Roma, 14 marzo 2001
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