DI MAURIZIO CROSETTI
Suarez era la perfezione. Il Barça vendendolo rinnovò il Camp Nou. Ai compagni spaventati da Puskas disse: “Mica vorrete l’autografo?”
Chiusa la carriera da calciatore, Suarez ha allenato: era il ct della Spagna a Italia ’90. Poi gli anni in tv da commentatore
I nostri padri e i nostri nonni raccontavano Suarez (“Ah, Luisito Suarez…”) come si prova a narrare la perfezione, come se esistessero davvero le parole per dire chi furono Michelangelo e Mozart, George Best e Vittorio Gassman. Perché, signori, qui si dice addio a uno dei più forti calciatori di tutti i tempi, il numero 10 della Grande Inter di Herrera, il primo e unico Pallone d’Oro spagnolo, un regista che sapeva segnare, dribblare, lanciare corto ma soprattutto lungo: passaggi al volo di 50 metri sui piedi del compagno in corsa. E che personaggio, che persona. Ironico, gentile,
disponibilissimo con tutti. Prima arrivava il suo sorriso e poi, negli ultimi anni con l’aiuto di un bastone, quando si presentava un po’ zoppicando, ecco lui, don Luis il leggendario. Ma se provavi a fargli notare il volume di quella leggenda, lui ti guardava come un meccanico che sta per smontare un motore e così lasciavi perdere.Luis Suarez Miramontes, classe 1935, più che altro classe immensa, era figlio di un macellaio galiziano di La Coruña, e quando passò al Barcellona qualcuno storse un po’ il naso di fronte al piccoletto, una specie di diminutivo dei sogni, “Luisito” una volta e per sempre. L’allenatore Ferenc Platko, ungherese, fece portare un punching ball nello spogliatoio ma Suarez la prese male, «sono venuto qui per giocare a calcio, mica per fare a cazzotti», così levarono di mezzo l’arnese. Con i blaugrana, “El gallego dorado” vinse due campionati, una Coppa delle Fiere e il Pallone d’Oro nel 1960, prima volta per uno spagnolo. Allenatore, Helenio Herrera. Quando il Mago andò all’Inter, chiese al presidente Angelo Moratti di acquistargli il regista: «Ha il palleggio di Corso, il dribbling di Sivori e il tiro di Altafini, me lo compri e vinciamo tutto». Andò esattamente così, e con i 250 milioni di lire incassati, una cifra gigantesca per quei tempi, il Barcellona finì il terzo anello e costruì il tetto del nuovo Camp Nou: uno stadio finanziato da Suarez.
Diceva Herrera: «Se non sapete cosa fare del pallone, datelo a Luis». In Spagna, era stato un 10 alla Platini, rifinitore e goleador. Nell’Inter, il Mago lo volle regista classico: questo lo fece segnare un po’ meno (comunque, 55 gol in 333 partite), ma permise alla squadra un ordine e un disegno altrimenti irraggiungibili. Non per nulla, Alfredo Di Stefano aveva battezzato Luisito “el Arquitecto”. Suarez arrivò a Milano a 26 anni compiuti, portando nel gruppo quell’esperienza che agli altri mancava. Prima della finale di Coppa dei Campioni a Vienna contro il favoloso Real Madrid, 27 maggio 1964, la prima delle due vinte in nerazzurro, i compagni andarono da Luis per parlargli di quel Di Stefano appena visto da vicino («È alto due metri!» sussurrava Mazzola) e naturalmente di Puskas («Il Colonnello, il Colonnello… », ripeteva Picchi), e allora Suarez tagliò corto: «Siamo venuti qui per batterli, non per chiedergli l’autografo».
Erano tempi inimmaginabili. Con i primi guadagni veri, Luisito non si comprò una fuoriserie o un orologio tempestato di diamanti, ma le quote di un maglificio, perché allora il calcio sostituiva un lavoro per qualche anno soltanto, poi bisognava pensare al domani. E quando Luisito venne liquidato dall’Inter, nel 1970, perché il nuovo allenatore Heriberto Herrera, l’altro Herrera, sosteneva che lui e Corso non potessero giocare insieme («Meno male che non è arrivato prima, cosi qualche trofeo abbiamo fatto in tempo a vincerlo», risposte sarcastico Luis), il domani diventò la Sampdoria dove il galiziano continuò a divertirsi, già pensando che gli sarebbe piaciuto fare l’allenatore, pur sempre un modo diverso di essere architetti. E lo farà anche in club importanti e gloriosi come la sua stessa Inter, il Cagliari, la Spal e il Como, e un giorno gli daranno la panchina della nazionale spagnola che Luis guidò a Italia 90, in un momento minore della scintillante storia. I risultati non vennero, ma alle conferenze stampa alle porte di Udine i cronisti si rivolgevano a Suarez con la deferenza dovuta a un nobile patriarca.
Quanto lo hanno amato, i nostri papà e i nostri nonni, non necessariamente interisti. Perché non si poteva non essere conquistati dall’apparente semplicità dei suoi gesti in purezza, quei passaggi da est a ovest, da ovest a est, valicando qualunque confine con la precisione di una carta millimetrata. E quanta malinconia, adesso, nel salutare per sempre un omino gentile, riascoltando a occhi socchiusi il suo passo asimmetrico in corridoio, piede, bastone, piede. Un inganno dei sensi. Il corpo forse zoppicava, ma il signor Luisito era ancora trasparente e leggero come un aquilone.
La Repubblica, 10 luglio 2023
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