Due giorni in memoria del consigliere istruttore ucciso nel 1983. Domani la deposizione delle corone e la messa
Davide Ferrara
L’intuizione del pool antimafia e la lungimiranza sulle figure di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Domani ricorrerà il 40esimo anniversario della strage che nel 1983 provocò la morte del capo dell’ufficio istruzione Rocco Chinnici. Previsti due giorni di iniziative per la commemorazione.
Oggi il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, volerà in città: il Capo dello Stato è atteso alle 10.30 nell’aula magna della Corte d’appello per il seminario Memoria è continuità: il lavoro di Rocco Chinnici, dall’ufficio distruzione di Palermo alla legislazione antimafia italiana ed europea. Un dibattito che vuole ricordare la modernità di cui è stato artefice il magistrato originario di Misilmeri, che ha dato l’impronta all’antimafia moderna aprendo un percorso mai battuto prima e che ha portato ai più recenti sviluppi anche in ambito europeo.
Domani, invece, Chinnici verrà ricordato alle 9.30 con la tradizionale deposizione delle corone d’alloro in via Pipitone Federico 59, luogo della strage mafiosa, la prima ad essere caratterizzata dalla più moderna tecnica dell’esplosivo comandato a distanza.Era la mattina del 29 luglio quando una Fiat 126 verde imbottita con 75 chili di tritolo e parcheggiata davanti la sua abitazione fu fatta esplodere da Antonino Madonia, boss del quartiere Resuttana, che si trovava nascosto in un furgone rubato e appostato nelle vicinanze alla casa del magistrato. Accanto al suo corpo altre 3 vittime: i due componenti della scorta, il maresciallo dei carabinieri Mario Trapassi, l’appuntato Salvatore Bartolotta e il portiere dello stabile di via Pipitone, Stefano Li Sacchi. Unico superstite fu l’autista di Chinnici, Giovanni Paparcuri, che riporto solo gravi ferite. In occasione delle commemorazioni in via Pipitone, saranno istituti alcuni divieti di sosta con rimozione coatta dalla mezzanotte di domani nel tratto compreso tra via Prati e via Giacomo Leopardi, mentre dalle 16 in piazza San Michele, proprio nell’omonima chiesa della piazza, le vittime saranno ricordate alle 10 con una messa in loro memoria.
Chinnici entrò in magistratura nel 1952 e dopo un lungo periodo di permanenza come pretore a Partanna si trasferisce a Palermo nel 1966. Il ruolo che andò a ricoprire fu di giudice dell’ottava sezione dell’ufficio istruzione del tribunale e quattro anni più tardi cominciò ad occuparsi di mafia: casi delicati, così come fu quello della cosi chiamata strage di viale Lazio, operazione diretta da Totò Riina i cui killer vestiti da militari della guardia di finanza irruppero negli uffici del costruttore Girolamo Moncada compiendo una mattanza.
Nel ‘79 viene nominato consigliere istruttore e ha l’intuizione che farà la storia: progetta e crea nel suo ufficio un gruppo di lavoro, chiamato poi pool antimafia, nel quale radunerà attorno a sé due giovani magistrati, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino: uno dei primi casi affrontati sarà la cosiddetta inchiesta Spatola, durante la quale nacque il «metodo Falcone», rivoluzionarie verifiche sui movimenti del denaro sporco. Chinnici coordinò le inchieste sui delitti politici tra cui Piersanti Mattarella, fratello dell’attuale presidente della Repubblica.
Quell’idea di lavorare in pool che portò al maxi processo
Pasquale Hamel
Via Pipitone Federico n. 59 si trova a qualche decina di metri da casa mia, in un tratto di strada segnato da molti esercizi commerciali e per questo motivo, oggi, come quel mattino del 29 luglio 1983, data del tragico evento, densamente frequentato. Proprio lì, in un condominio della nuova borghesia palermitana, viveva il cinquantottenne Rocco Chinnici, consigliere capo dell’ufficio istruzione del tribunale di Palermo.
E proprio lì, in via Federico Pipitone, uscendo da casa per recarsi in tribunale, alle 8,05 di quel tragico giorno incontrò la morte a seguito di un attentato - lo ricordo molto bene perché nelle mie orecchie risuona ancora quel terribile boato dovuto alla deflagrazione - causato dalla esplosione di una Fiat 126 che era stata imbottita di tritolo.
L’attentato nel quale, oltre al valoroso magistrato, persero la vita il carabiniere Mario Trapassi e l’appuntato Salvatore Bartolotta, che facevano parte della scorta, nonché il portiere dello stabile, Stefano Li Sacchi, destò molto sgomento sia per la centralità del luogo in cui era stato compiuto - solo il caso ha impedito che si trasformasse in una immane tragedia - sia anche, e soprattutto, per la tecnica efferata con la quale era stato realizzato. Si parlò infatti, ricordando quanto dolorosamente in quegli anni accadeva nel vicino Oriente, di un attentato in «stile libanese».
Il magistrato Chinnici si era reso famoso per avere inventato un metodo di lavoro nuovo, il cosiddetto Pool antimafia, cioè un gruppo di magistrati - ne furono, fra gli altri, componenti i giovani magistrati Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e Giuseppe Di Lello - che si occupava collegialmente di indagini sulla mafia. Un metodo assolutamente innovativo che regalò frutti copiosi come il maxiprocesso che portò alla condanna di moltissimi boss e picciotti di Cosa Nostra.
Rocco Chinnici era da tempo nel mirino della mafia, i suoi metodi innovativi, che costituirono un vero modello di organizzazione giudiziaria per le altre magistrature italiane e la sua convinta attività di sensibilizzazione dell’opinione pubblica e delle stesse istituzioni - queste ultime talora sorde o spesso distratte sui temi della legalità - è testimoniata dall’appassionata partecipazione a numerosi incontri pubblici.
Particolare attenzione prestava al mondo della scuola, molti ricordano i suoi interventi nelle aule scolastiche per parlare alla gioventù studentesca della criminalità organizzata e dei pericoli connessi all’uso della droga. Non era un caso che sottolineasse come «il rifiuto della droga costituisce l’arma più potente dei giovani contro la mafia».
Per i clan, che fino ad allora spadroneggiavano, l’impegno pedagogico del magistrato Chinnici veniva a rappresentare una sfida aperta al consolidato sistema di potere mafioso che difficilmente poteva essere tollerata. Di tutto questo Rocco Chinnici era pienamente consapevole tanto da riconoscere, in un suo intervento che «la cosa peggiore che possa accadere è essere ucciso. Io non ho paura della morte e, anche se cammino con la scorta, so benissimo che possono colpirmi in ogni momento. Spero che, se dovesse accadere, non succeda nulla agli uomini della mia scorta. Per un magistrato come me è normale considerarsi nel mirino delle cosche mafiose. Ma questo non impedisce né a me né agli altri giudici di continuare a lavorare».
Non è un caso, dunque che Paolo Borsellino, anche lui sarebbe stato vittima di un attentato «stile libanese», potesse scrivere nella prefazione a «L’illegalità protetta», un volume che raccoglieva gli scritti di Chinnici, che «Né la generale disattenzione né la pericolosa e diffusa tentazione alla convivenza col fenomeno mafioso - spesso confinante con la collusione - scoraggiarono mai quest’uomo, che aveva, come una volta mi disse, “la religione del lavoro”».
I funerali di Chinnici, celebrati nella chiesa di San Domenico, pantheon dei siciliani illustri, furono officiati nella mattinata del 30 luglio successivo dal cardinale Salvatore Pappalardo e registrarono la partecipazione massiccia della gente, segnale che la sensibilità popolare stava crescendo. Alle esequie, com’era già avvenuto per quelle del generale Dalla Chiesa, partecipò il presidente della Repubblica Alessandro Pertini segno autorevole della presenza dello Stato.
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