lunedì, luglio 03, 2023

LA STORIA. Quei poliziotti uccisi dalla banda Giuliano e sommersi dall’oblio


di Amelia Crisantino

La strage dimenticata avvenne la sera del 2 luglio 1949 a Portella della Paglia, lo stretto passaggio che dalla Valle dello Jato porta alla Conca d’oro. Cinque agenti di Pubblica sicurezza morti anni prima in un agguato, cinque poveri cristi intrappolati in una camionetta della polizia che da San Giuseppe Jato stava andando a Palermo. Anche se era pericoloso avventurarsi per quella strada di sera, anche se solo qualche settimana prima una circolare ufficiale esortava a stare attenti. A non uscire col buio. La banda Giuliano si muoveva da padrona in un territorio martoriato, accerchiava i paesi, imponeva il coprifuoco al mastodontico apparato repressivo messo in piedi per la sua cattura. 


C’erano stati assalti alle caserme, a due anni dal Primo maggio 1947 e dai morti di Portella della Ginestra il bandito sembra ancora “il re di Montelepre”. Anche se il cerchio si stringe. E la lotta al banditismo che nel secondo dopoguerra si consuma in Sicilia conserva ancora gli aspetti opachi tipici dei momenti di transizione, quando gli equilibri cambiano e nuove egemonie si affermano. Le montagne dell’anfiteatro che circonda Palermo fanno da sfondo ma sono anche protagoniste. La guerriglia è un dato di fatto e sono le gole, i pianori, i passaggi obbligati fra le rocce a diventare uno scenario che avanza verso il primo piano. 
A parole tutti vorrebbero catturare Giuliano. Ma all’interno dell’Ispettorato generale di Pubblica sicurezza per la Sicilia — creato apposta per reprimere il banditismo — polizia e carabinieri sono in competizione, sono avversari fra loro. E arrivati al 1949 diventa ormai chiaro come alla mafia venga riconosciuto un ruolo che la promuove, facilitando il ritorno ai vecchi fasti dopo le repressioni del prefetto Mori. Ci sono banditi che vengono utilizzati come mediatori, fra gli stessi banditi e l’apparato repressivo dello Stato. Un pericoloso salto di qualità. Sarebbe stata poi la proverbiale competenza nell’uso della violenza — tipica del mafioso emergente — a facilitare i risultati futuri. 
Intanto nell’immediato dopoguerra le forze dell’ordine puntano al risultato, in cambio di preziose informazioni sono pronte a chiudere anche più di un occhio. I rapporti diventano così stretti che qualche anno dopo la sentenza di Viterbo li avrebbe condannati definendoli «eccezionali e abnormi». 
Quanto avviene la sera del 2 luglio 1949 possiamo ricostruirlo sui documenti dell’epoca, recuperati da Pierluigi Basile presso l’Archivio Centrale dello Stato, e bisogna pur dire che questo episodio aspira a tornare nel patrimonio collettivo grazie all’impegno di alcune persone, la memoria è stata recuperata a partire dal territorio. Ha cominciato il medico jatino Giuseppe Pagliaviniti, che nel 2016 hapromosso il recupero di questa vicenda avvenuta in anni che sembrano lontani. Ma questa storia, inserita nella cronologia di quei mesi, ne mostra l’importanza nel successivo evolversi degli avvenimenti: non si tratta di un singolo episodio ma di un piano strategico, che produce risultati. 
Dal 2 luglio del 2016 le associazioni Libera, Legambiente, Liberessenze e Pro Jato hanno ricordato la strage, negli ultimi anni denunciando anche come il luogo dell’agguato non fosse stato risparmiato dai rifiuti che costeggiano la strada provinciale 20 in territorio di Monreale. Nel marzo di quest’anno il presidio Libera Valle Jato e la Pro Loco di Monreale hanno presentato istanza all’ufficio di gabinetto della questura di Palermo, chiedendo un simbolico riconoscimento per i cinque giovani poliziotti. Istanza subito accolta e domani alle 11 sul luogo dell’eccidio, presso la cappella della Madonna, alla presenza del questore di Palermo, del sindaco di Monreale e dei rappresentanti delle associazioni sarà scoperta una targa commemorativa che per la prima volta ricorda i nomi di quelle giovani vittime: Carmelo Agnone, Michele Marinaro, Carmelo Lentini, Candeloro Catanese e Quinto Reda. 
Ed è nella conversazione con Pierluigi Basile, docente e storico jatino, a venire fuori l’idea di un atlante che — ispirandosi al progetto dell’Anpi sulle stragi nazifasciste — raccolga le stragi e gli agguati perpetrate dal banditismo del secondo dopoguerra in Sicilia. Un progetto che possa recuperare una memoria fragile, che rischia di scomparire togliendo significato al nostro vivere su un territorio che è stato invece così determinante anche per gli equilibri nazionali. Dice Basile: «Ma lo sappiamo quanti sono stati i morti di questa guerra combattuta in Sicilia? nessuno li ha contati, potrebbero essere centinaia» . Torna sul 2 luglio 1949 per dire che la storia la fanno gli uomini e non bisogna trascurare i motivi personali: qualche mese prima avevano arrestato la sorella e la madre di Giuliano, non era la prima volta, e il bandito che le voleva libere scrive al “Giornale di Sicilia” minacciando ritorsioni. Il 19 agosto, un mese e mezzo dopo il tragico 2 luglio ci sarà la strage di Bellolampo. Sette carabinieri morti. Siamo vicini alla fine, ma c’è ancora il tempo per accogliere la giornalista svedese Maria Cyliakus e anche Jacopo Rizza che, accompagnato da un fotografo e un cineoperatore, sarebbe diventato famoso per avere intervistato Giuliano il 17 novembre 1949. 

La Repubblica Palermo, 1/7/2023

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