Un’immagine dello sbarco degli Alleati in Sicilia: era il luglio di ottanta anni fa
di Rosario Mangiameli
Lunedì si presenta lo studio di Salvatore Lupo che smonta la tesi sul ruolo di Lucky Luciano nell’Operazione Husky. Cosa nostra semmai riuscì ad approfittare del mercato nero e della crisi generale causata dalla guerra. La leggenda del foulard del boss. La tesi che si sviluppò rese la missione angloamericana un fatto folcloristico, tacendo sul rifiuto del conflitto che fame e paura delle bombe avevano provocato
Nel panorama delle rievocazioni e studi per l’ottantesimo anniversario dello sbarco anglo americano in Sicilia ( l’Operazione Husky) spicca l’agile libro che Salvatore Lupo (Il mito del grande complotto. Gli americani, la mafia e lo sbarco in Sicilia del 1943, Donzelli, Roma, 2023, 102 pagine, 16 euro, la presentazione lunedì alle 16 a Palazzo reale) ha dedicato al tema del supposto aiuto dato dalla mafia siculo americana alle operazioni militari e al governo della Sicilia occupata.
Lupo contesta la veridicità di questa narrazione, si chiede però quale sia la ragione della sua persistenza, nonostante le critiche mosse da molti storici che hanno condotto ricerche sulla storia della mafia e sulla storia dell’Operazione Husky: «Il mito ha travestito da complotto quello che fu un assai più complesso rivolgimento storico» , scrive. L’occupazione della Sicilia impresse, infatti, una svolta alla guerra.
Una teoria del complotto nacque nel luglio del 1943, durante la battaglia per la Sicilia. Le gerarchie del regime giustificarono la sconfitta con accuse di tradimento rivolte ai comandi militari italiani e, in parte alla società siciliana; gli avvenimenti successivi, la caduta del fascismo, avvenuta mentre in Sicilia ancora si combatteva ( 25 luglio), l’armistizio dell’8 settembre, la nascita della neofascista Repubblica sociale italiana, contribuirono a cristallizzare i termini della polemica. Ma questo è l’antefatto. La versione che include la mafia nel complotto si sarebbe affermata verso la fine degli anni Cinquanta e rimbalzò dall’America all’Italia, dove allora si parlava poco di mafia.
Lupo ricostruisce il dibattito che a metà degli anni Cinquanta animò l’opinione pubblica statunitense sui rapporti tra il sottomondo (underworld) della criminalità organizzata e la politica. Vennero tra l’altro richiamati fatti accaduti nel 1942, quando la Marina aveva ottenuto la collaborazione della mafia siculo americana per prevenire atti di sabotaggio nel porto di New York. A condurre la trattativa da parte mafiosa fu Lucky Luciano, allora detenuto. E qui Lupo si trova ad affrontare un complicato gioco di specchi. La minaccia dei sabotaggi era reale o artatamente provocata nel consolidato stile mafioso? Era il sabotaggio il vero problema. o l’intervento dei sindacati controllati dalla mafia aveva lo scopo di “disciplinare” la manodopera ed esautorare i sindacati più radicali?
Il dibattito che si svolse sulla stampa e in commissioni parlamentari ebbe protagonisti politici di primo piano come il senatore democratico Estes Kefauver e il procuratore e politico repubblicano Thomas Dewey, in tempi diversi entrambi competitori (sconfitti) per la Casa bianca.
Sorse una domanda: quella collaborazione si era estesa anche alla progettazione dell’Operazione Husky? La risposta fu negativa, sia nei risultati delle inchieste, sia, in seguito, negli studi storici che riguardano l’effettiva conduzione delle operazioni di sbarco e il governo dell’Isola occupata. La mafia in Sicilia aveva svolto un ruolo importante, e anche politico, ma per la propria capacità di profittare del mercato nero e della generale crisi sociale e istituzionale provocata dalla guerra.
La pubblicistica italiana riprese subito quel dibattito, ma ne ignorò le conclusioni, anzi le ribaltò sostenendo arbitrariamente che l’aiuto c’era stato. Fu in particolare Michele Pantaleone (Mafia e politica, Einaudi, 1962), militante socialista, a confezionare il racconto del foulard di Lucky Luciano lanciato sul paesino di Villalba per chiedere al capo mafia Calogero Vizzini di fare intervenire i “picciotti” in aiuto delle truppe statunitensi. In cambio i mafiosi avrebbero potuto esercitare liberamente i loro traffici.
Questa versione ebbe subito grande fortuna. Era nata a sinistra, in funzione anti-atlantica, ma ben presto fu accolta anche negli altri schieramenti politici, da magistrati e perfino nelle relazioni delle commissioni antimafia. Attribuire agli americani la colpa della persistenza della mafia era un modo di attribuire ad altri le responsabilità, osserva Lupo. Ma possiamo aggiungere che la casualità esterna rappresentata dalla accoppiata mafia-americani deforma la drammatica vicenda che portò alla nascita di un sistema politico democratico in Italia.
All’inizio degli anni Sessanta fu quello un modo di prendere atto della persistenza del fenomeno mafioso, ma non ne agevolò la comprensione. Si accreditò l’idea di una mafia esclusivamente legata al latifondo, cioè a un sistema economico arretrato, circostanza che ne avrebbe reso difficile la lettura in un contesto modernizzato qual era ormai quello della seconda metà del ventesimo secolo.
La teoria dell’aiuto mafioso rese la lettura dell’Operazione Husky quasi un fatto folclorico tacendo sulla condizione di vita della popolazione, sul rifiuto della guerra che la fame e la paura dei bombardamenti avevano provocato; non si scorgeva ancora un orizzonte politico, come sarebbe avvenuto dopo l’8 settembre, ma si manifestava il fallimento del progetto di dominio e discriminazione nazionalistica e imperialistica perseguito dal fascismo.
La Repubblica Palermo, 8 luglio 2023
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