Nel quarantennale della strage di via Pipitone Federico, un ricordo e un ritratto attualizzati del magistrato che fu promotore del pool antimafia e degli incontri con i giovani nelle scuole
di PIERO MELATI
La Sicilia è cambiata. Ma, nello stesso tempo, in certe cose, non è cambiata affatto. Un paradosso, un ossimoro. Mentre si vince, anche si perde. Sono trascorsi quarant’anni dalla strage di via Pipitone Federico, provocata da una autobomba armata di 75 chili di tritolo, che oltre al consigliere istruttore del tribunale di Palermo costò la vita al maresciallo Mario Trapassi, all’appuntato scelto Salvatore Bortolotta, al portiere dello stabile Stefano Li Sacchi, provocando altri 17 feriti, tra cui l’allora autista del magistrato Giovanni Paparcuri, sopravvissuto per miracolo ma portando tuttora i segni dell’esplosione. Tanta fu la potenza del “botto” che il tettuccio della Fiat 126 usata per l’attentato venne ritrovato nel pozzo di luce in cima a un palazzo di via Villa Sperlinga 21, alto 26 metri e distante 12 dal luogo del massacro. A Villa Sperlinga, dunque. Una coincidenza macabra, tragica e sciasciana.
Chinnici non è stato solo il primo magistrato a cadere tramite la tecnica stragista, poi applicata anche per i massacri del 92-93. Non è stato solo il promotore del pool di giudici antimafia che infine istruiranno lo storico Maxiprocesso di Palermo. Non è stato solo colui che ebbe l’idea di coordinare e accentrare in un unico ufficio tutte le indagini antimafia. Non è stato solo l’uomo che ebbe il coraggio di alzare il tiro delle indagini, spingendole dai bassifondi della “mafia militare” fino alle altezze dei santuari fino allora intoccabili del potere e della grande finanza. Rocco Chinnici è stato soprattutto il primo a intuire il nesso diretto tra l’invenzione del traffico mondiale di stupefacenti (per la prima volta scientificamente strutturato) da parte di Cosa Nostra siciliana, la presenza delle raffinerie di eroina nell’Isola, l’enorme flusso di denaro che incassavano i grandi boss e irrorava l’economia, e la contemporanea peste della droga pesante che, come una epidemia, divorava le strade prima di Palermo, poi della Sicilia, infine - sempre dall’Isola - dell’Italia e dell’Europa, come poco prima aveva già dominato il mercato americano.
Perciò la macabra circostanza del tettuccio dell’autobomba che finisce a Villa Sperlinga è una coincidenza tragica (e sciasciana, poiché lo scrittore di Racalmuto dava importanza a questi dettagli fatali in apparenza casuali). Perché Villa Sperlinga, denominata in quegli anni “Villa Siringa”, ai tempi di Chinnici era il centro del grande spaccio di eroina a Palermo. E da quando Chinnici aveva intuito il forte legame tra gli scenari del grande traffico internazionale e la peste della droga nelle strade, il giudice si era speso per anni, senza mai tregua, in un vero e proprio secondo lavoro: parlare ovunque, in tribunale, nelle scuole, nei convegni, nei salotti, nei Rotary, sui giornali, persino presso amici e conoscenti, del flagello della droga mortale, usando talvolta toni apocalittici, e mettendo sempre in relazione la morte di decine di giovani per overdose con l’economia “drogata” e mafiosa che in quegli anni arricchiva la Sicilia.
Da allora, davvero, sono cambiate tante cose, la Sicilia “non è più quella di una volta”. La vecchia Cosa Nostra, dopo le stragi del ‘92, è stata distrutta, i latitanti finalmente arrestati, i suoi capi sono morti negli abissi delle carceri speciali. Eppure, proprio sul contrasto alle droghe mortali, il tema più caro a Chinnici, quello per cui ha speso disperatamente le sue forze, al fine salvare i ragazzi dipendenti, quaranta anni dopo abbiamo fatto passi avanti?
Oggi Palermo è dolorosamente diventata la capitale nazionale del crack, una droga talmente letale che - negli anni ‘80 in America, quando il fenomeno esplose nei ghetti neri e il regista Spike Lee lo raccontò nei suoi film - la stessa criminalità aveva scelto di togliere quel veleno dai mercati. Troppo potente: creava subito dipendenza e per questo - come l’eroina - garantiva la continuità delle vendite, ma riduceva i consumatori in tanti zombi, presto costretti a vivere come barboni, con conseguente moltiplicazione dell’allarme sociale intorno a loro.
Intendiamoci: Palermo si è anche allineata al multiconsumo di altre droghe, come avviene nelle altre grandi metropoli italiane; Palermo garantisce altrettanto l’approvvigionamento puntuale di altri prodotti (vedi cocaina) destinati al mercato di alto consumo (i recenti fatti di cronaca, dai maxi-sequestri di carichi agli scandali nei palazzi del potere, stanno a dimostrarlo). Ma la vera emergenza è questa droga fumabile in cristalli, dal costo relativo (da 5 a 10 euro a dose), che si può produrre in un semplice laboratorio casalingo, purché si abbia il prodotto base (i rifiuti in polvere della lavorazione della cocaina), bicarbonato di sodio, ammoniaca e la strumentazione facilmente reperibile e di agile uso. L’effetto dura poco, per cui si può arrivare a fumarla anche cento volte in un giorno, crea quasi immediata dipendenza, e oggi a Palermo (dove il numero delle vittime che si rivolgono a pubbliche strutture aumenta di 800 ogni anno) viene consumata da una utenza che va anche dai 12 ai 16 anni.
Gli esempi sono innumerevoli. Basti scorrere i siti di informazione su Palermo. In questi, a differenza dei giornali di carta di ieri, che dopo la lettura si buttavano via, si conserva in Rete tutta la memoria delle cose recenti. E qui medici di prima linea, genitori di adolescenti spezzati dalle overdosi, operatori scolastici, comitati di volontari, in tanti quartieri palermitani hanno da tempo lanciato l’allarme e combattono ogni giorno, in solitudine e con coraggio, una guerra impari. Così come negli stessi siti di informazione abbondano i moniti delle forze dell’ordine, che ogni giorno arrestano spacciatori e sgominano reti organizzate, e che ci dicono che la questione crack non può essere materia esclusiva di chi fa scattare le manette. Dovremmo ascoltare maggiormente chi sta in questa trincea. Perché la storia che Rocco Chinnici tentò di combattere, quella di un’intera generazione immolata sugli altari del nuovo business della mafia, non abbia a ripetersi quaranta anni dopo, in questo 2023.
La storia che si ripete. Proprio la piaga del crack dovrebbe spingerci a riflettere su cosa sia davvero “fare memoria”. Ci sono, per esempio, i tradizionali “percorsi di legalità” fatti abitualmente nelle scuole che oggi - a detta degli stessi operatori scolastici - si sono arenati e avvitati nell’inconcludenza. “Le commemorazioni così come vorrebbero che fossero fatte a scuola non hanno più senso, i ragazzi sono disincantati, non credono più a queste lavate di faccia” mi ha scritto di recente un’operatrice. Non si può certamente affrontare una emergenza come quella del crack tra i giovanissimi celebrando anniversari. Si può, invece, fare educazione se, quando si parla di una figura come quella di Chinnici, si parlerà della droga nelle strade oggi, così come faceva lui ai suoi tempi. Forse non se ne farà una carriera, non servirà a curare la propria immagine, non si venderanno libri, non si finirà in prima pagina, nemmeno si strapperanno applausi, ma almeno con fatica si sarà messo davvero il dito nella piaga.
Il cuore di Palermo, in questi decenni, è stato ricostruito e ripopolato, ed è diventato un immenso itinerario enogastronomico. Ai suoi fianchi è cresciuta una “movida” che non ha pari in nessun’altra metropoli italiana. Ben venga: l’economia si muove, la città non vuole più affliggersi. Ma è proprio dietro le quinte di questo boom, a dire il vero ben poco governato, che l’esplosione della vecchia Cosa Nostra verticistica (quella corleonese e delle stragi per intenderci, quella che sempre diciamo essere stata “sconfitta”) ha comportato il rilascio nel circuito sanguigno della città di una miriade di schegge criminali e/o criminogene impazzite.
Si tratta, andiamo per esempi tagliati con l’accetta, dagli “scappati” in America tornati nell’Isola, a ottuagenari con bombola per l’ossigeno che si vogliono ancora “portare” come tanti Scarface, a professionisti reduci dagli anni ruggenti mafiosi, ora messisi in proprio, a giovani rampanti abbagliati dall’arricchimento facile, a povere famiglie dentro le quali qualche parente ha consigliato quanto sia facile mettere in piedi un laboratorio di crack nella cucina della nonna. Ancora, ci saranno ancora gli “sperti” (e furono tantissimi, nella maggior parte dei quartieri popolari di Palermo) che avevano imparato a maneggiare e vendere droga letale proprio negli anni di Chinnici, quando il capomandamento di allora li riforniva del prodotto confezionato nelle raffinerie di eroina, per essere poi smerciato in strada proprio da loro. A quei tempi, essi acquisirono una nuova “professionalità”, che magari oggi hanno trasmesso a figli e nipoti. Negli anni Ottanta lavorarono all’ombra di una potente mafia (chi sgarrava, o si metteva in proprio, moriva). Ma oggi, smagliatosi il controllo del territorio, potrebbero avere intrapreso una attività tutta loro, come piccoli imprenditori del crimine, o averla trasmessa agli eredi. C’è, insomma, una Palermo che da almeno quarant’anni campa sulla droga.
La droga “dura”, quella che crea dipendenza, insegnano gli esperti, si propaga come una epidemia, si estende per contagio, da un dipendente all’altro. Questa la lezione del passato. L’arricchimento per chi la importa, fabbrica e smercia è quasi immediato ed è immediatamente molto consistente. Con la droga si guadagna enormemente, sulla pelle e la salute dei ragazzi. E allora, dobbiamo proprio attendere che qualcuno di questi “pulviscoli” criminali di oggi diventi un potente “cartello” siciliano della droga di domani, esattamente come quelli che si sono formati in Messico dopo la fine dell’impero del trafficante colombiano Pablo Escobar, con tanto di un nuovo “el jefe” palermitano, soldati armati ai suoi ordini, mezzi blindati e rifugi sicuri, e con una cassaforte sempre piena da fare sbalordire Paperone? Perché anche questo potrebbe accadere, che all’ombra della droga nasca una nuova mafia, così come quella del passato si era geneticamente trasformata, proprio grazie all’invenzione siciliana del traffico internazionale di stupefacenti.
Tentare di ridurre subito il danno, insistono gli esperti: è la prima strada da imboccare. Si tratterà, dunque, di un umile e duro lavoro. Di nuovo, nel farlo, non si conquisterà grande visibilità, non si diventerà “eredi” degli “eroi” ai convegni e dentro le tante fondazioni. Ma qui ci viene in soccorso proprio Rocco Chinnici. Lui, pur di spendersi in questo impegno, quello di “ridurre il danno”, accettò di farsi dire da più parti che era ormai diventato “ossessionato” e “fissato”. Non parlava d’altro. Ma ugualmente non smise mai di insistere, spiegare, proporre, andare con il suo corpo nelle scuole a parlare ai ragazzi a parlare di droga, fino all’ultimo giorno di vita. E mentre intanto si esponeva e combatteva, dall’ufficio giudiziario che diresse, il crimine più potente e protetto del mondo. Ha lottato per i ragazzi della sua città senza sconti e senza scampo. Forse fu davvero questo il suo più vero e luminoso coraggio.
L’Ora, edizione straordinaria, 29/7/23
Le foto della strage di via Pipitone Federico dall’archivio storico de L’Ora, custodito a Palermo presso la Biblioteca Centrale della Regione Sicillia
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