Roma, 10 giugno 2001, piazza s. Pietro durante la canonizzazione di San Bernardo |
DINO PATERNOSTRO
Oggi ricorre il 22° anniversario della canonizzazione di fra Bernardo, l’umile frate cappuccino, originario di Corleone, che Papa Karol Wojtyla chiamò agli onori dell’altare il 10 giugno del 2001
San Bernardo, al secolo Filippo Latino, figlio del conciapelle mastro Leonardo, era nato a Corleone il 6 febbraio del 1605. Il padre era originario di Chiusa Sclafani, mentre la madre, Francesca Sciascia, era corleonese. Vivere a Corleone in quegli anni non era facile. Specie per la povera gente. Probabilmente Leonardo Latino vi si era trasferito dalla vicina Chiusa Sclafani nella convinzione che in una cittadina più grande avrebbe potuto con più facilità sbarcare il lunario. Corleone, infatti, era una città del demanio regio, non aveva un signore che poteva decidere della sua sorte, ma un pretore, dei giurati e un sindaco che l’amministravano per conto della Corona. Crescendo, Filippo incarnò bene il modo di essere della sua città. Aveva un carattere fiero, una volontà di ferro e manifestava insofferenza per le regole e per la disciplina. Se a ciò si aggiunge che si era tanto appassionato all’arte della scherma, da cogliere ogni occasione per lasciare la bottega del padre o quella del calzolaio, dove era stato mandato per imparare un mestiere, e correre ad addestrarsi nel maneggio della spada, si possono ben capire le preoccupazioni della sua famiglia. La “tentazione”, tra l’altro, l’aveva a portata di mano. A Corleone, infatti, da poco tempo erano stati ultimati i lavori di costruzione della caserma e, il primo maggio del 1618, era arrivata in paese la prima compagnia di soldati, detti Borgognoni perché assoldati in gran parte nell’antico Ducato di Borgogna, al servizio del cattolicissimo Re di Spagna. Filippo e, con lui, altri ragazzi di Corleone subirono immediatamente il fascino delle parate, delle manovre e delle esercitazioni militari. In questo erano incoraggiati dal governo dell’isola, fortemente interessato a preparare future reclute per le regie armate. Giorno dopo giorno, il giovane cominciò a prendere confidenza con le armi e ben presto imparò da quei soldati l’arte della scherma. Ma «in brevissimo tempo fece tali progressi… da non avere più bisogno degli insegnamenti altrui, anzi, continuando ad esercitarsi senza posa e con passione alle finte, ai mulinelli, alle passate, alle stoccate e ai rovesci, sarebbe arrivato alla gloria di sentirsi proclamare, un giorno, prima spada di Corleone ed anche di tutta
Ed ecco come Filippo usava la sua spada. ra l’estate
del 1626, il tempo della mietitura in un grosso centro agricolo come Corleone.
Migliaia di contadini si recavano ogni mattina, prima dell’alba, nelle campagne
corleonesi, per tornare la sera col buio fitto, dopo un’intera giornata
passata curvi sotto il sole a mietere il grano con la falce e la forza delle
loro braccia. Erano tante le terre coltivate a grano, che per la campagna di mietitura
non bastavano i soli braccianti agricoli del paese. Arrivavano, allora, a
Corleone centinaia di lavoratori dai comuni del circondario ed anche da
Misilmeri, Villabate e Bagheria, i comuni della fascia costiera - attirati
dalla possibilità di guadagnare qualche soldo. L’urgenza di completare la
mietitura spingeva, infatti, i padroni ad aumentare la paga giornaliera, consentendo
a tanti lavoratori poveri di raggranellare un bel gruzzoletto da riportare a
casa a stagione ultimata, per sfamare le loro famiglie durante i rigori
dell’inverno. Non avendo un tetto sotto cui dormire, la sera si sistemavano
alla meno peggio sul lastricato della piazza o sugli scalini della Chiesa della
Madre. Si addormentavano stanchi, dopo una dura giornata di lavoro, ma
nottetempo venivano svegliati di soprassalto dai soldati spagnoli di stanza a
Corleone, che li costringevano a consegnare i loro risparmi. Una pratica
odiosa, che si ripeteva quasi ogni notte e che provocò l’ira di mastro Filippo
Latino.
Una sera, travestito col largo costume di tela bianca dei mietitori e con una spada accuratamente nascosta, si avvicinò alla scalinata della Matrice, dove già gli altri operai si preparavano a trascorrere la notte. «Per questa sera - spiegò loro - cercate un altro posto dove dormire, perché qui è troppo pericoloso. Fra poco arriveranno i soldati per rubare il sudore delle vostre fatiche, ma troveranno me ad attenderli. Vi prometto che farò perdere loro il vizio!». I mietitori, stupiti per le parole che avevano sentito, ma affascinati dal tono sicuro e dallo sguardo magnetico del loro interlocutore, si allontanarono. Filippo si adagiò su uno scalino e fece finta di addormentarsi. Presto arrivò la notte e, con essa, i soliti “bravi” intenzionati ad alleggerire le tasche dei malcapitati di turno. «Simulando di dormire profondamente, cogli occhi semichiusi, ebbe agio di contarli e dire fra sé: “Sono otto!” (…). I malcapitati, ignari del tranello che li attendeva, ed ingannati da quel sonoro russare, si fecero innanzi delicatamente ormai sicuri del bottino da raccogliere. “Ma questa sera ce n’è uno solo”, esclamò con sorpresa uno di essi! (…) Ormai erano sul posto e bisognava contentarsi, perciò si posero intorno e si disposero ad esplorare le sue tasche», racconta ancora fra Girolamo da Parigi.
E aggiunge: «Fu quello il momento ansiosamente
atteso da mastro Filippo, il quale, come scosso da una potente energia, saltò
fulmineamente in piedi e con la spada in mano emise un grido terrorizzante. I
rapinatori scossi dalla sorpresa rimasero momentaneamente intontiti; poi, invasi
da folle terrore, si precipitarono giù per la scala emettendo grida di
spavento. Mastro Filippo, che per agilità di gambe e robustezza di braccia non
era ad essi secondo, li inseguì velocemente gridando ed assestando piattonate
di spada su quelle spalle che provarono le odiate carezze di una collera
decuplicata. I soldati, temendo d’avere a che
fare con un demonio o con uno spettro, presi da grandissimo terrore,
nell’impetuosità della corsa imboccarono la via che scende dinanzi alla Chiesa,
dove, invece di sfuggire all’inseguitore, prestavano comodo bersaglio al suo
spadone, che conciava di santa ragione le loro schiene. Percorrendo in tal
modo le anguste vie dell’abitato, le grida e le bestemmie dei medesimi
produssero un tumulto così straordinario, da attirare alle finestre i
corleonesi che venivano destati dal sonno di soprassalto...». Comunque, da
quella notte, i mietitori poterono tornare a dormire tranquillamente sulla
gradinata della Matrice, senza il timore di vedersi derubati delle loro misere
paghe.
Ma nella famiglia di Filippo non erano contenti. «Cessa
- gli diceva la madre, Francesca Sciascia - cessa di maneggiare codesta spada,
perché essa ti apre una via che conduce a precipizi sconosciuti! Lascia dunque
quel brutto arnese! Tu ne sarai contento ed io lo sarò più di te, io, tua madre
che ti ama tanto!». Anche i fratelli e le sorelle rimproveravano amorevolmente
Filippo, invitandolo a lasciar perdere uno sport così pericolo, ma egli non
intendeva ragione. «Dopo tutto, diceva a se stesso per tranquillizzare la
coscienza, la mia spada è stata e sarà sempre cristiana, perciò mia madre non
può opporsi all’uso che ne faccio, poiché essa non vuole altro da me che una
cosa: vedermi agire da cristiano». Ma in un pomeriggio d’estate del 1626,
sfidato a duello dal palermitano Vito Canino, Filippo lo affrontò e gli tranciò
di netto i nervi del braccio destro, rendendolo invalido per tutta la vita. Per
il giovane corleonese fu un vero e proprio shock, che lo fece riflettere
sull’indirizzo da dare alla sua vita. Da lì a poco, cambiò radicalmente vita e
decise di farsi frate cappuccino. Peregrinò in tanti conventi della Sicilia,
praticando l’obbedienza e l’umiltà. Quando morì nel convento dei cappuccini di
Palermo, il 12 gennaio 1667, da tanta gente era già considerato un santo.
Fra
Bernardo è stato proclamato santo da Papa Karol Wojtyla il 10 giugno 2001,
quando molti ormai pensavano che si fosse avverata la profezia di fra Girolamo,
il frate cappuccino suo compaesano che, in un momento d’ira, gli aveva gridato:
"Bernardo, né tu santo, né io beato". E, in effetti, il 3 febbraio 1762,
quasi un secolo dopo la sua morte, fra Bernardo da Corleone era stato
proclamato beato da Papa Clemente XIII. Ma il passaggio successivo, la
proclamazione a santo, che si pensava dovesse avvenire da un momento all’altro,
non era più avvenuta. Anzi, sembrava che sull’umile frate
Cappuccino
di Corleone fosse calato il velo del silenzio. Lo stesso che era calato su fra
Girolamo, mai diventato beato.
Almeno
per quanto riguarda fra Bernardo, però, fra Girolamo si sbagliava. A metà degli
anni ’90, infatti, riavviato il processo di canonizzazione, la Chiesa cattolica
ne aveva riconosciuto i miracoli, proclamando solennemente la sua
santità.
Fu personalmente Papa Giovanni Paolo II, quella mattina del 10 giugno di ventidue
anni fa, che iscrisse il nome di Bernardo nell’albo dei santi, in una piazza
San Pietro gremita da fedeli corleonesi.
Il
2 aprile 1995, quando presentò la formale domanda per la riapertura del
processo di canonizzazione, fra Giovanni Zappulla, ex ministro provinciale dei
Cappuccini, l’accompagnò con delle considerazioni molto interessanti ed
innovative. "Il beato Bernardo - scrisse, infatti, fra Zappulla - per la sua
vita di austerissimo penitente, per la coraggiosa protezione della povera
gente, per il suo rifiuto ardito di tutte le forme di violenza che insidiavano
la virtù delle donne indifese, di mietitori e braccianti agricoli allo
sbaraglio, durante i lavori stagionali nel Corleonese, potrebbe essere proposto
come protettore di tutti coloro che, dal dovere professionale, sono chiamati alla
difesa del cittadino, contro tutte le forme di violenza e soprusi, comunque
etichettati". E la città di
Corleone
- sottolineava il frate cappuccino - "potrebbe per titoli di santità
eroica, di civismo e di coraggio, essere opposta con risolutezza a nomi di
corleonesi famigerati come fuorilegge".
Dino Paternostro
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