DI GIULIANO FOSCHINI
Era una donna. Era una madre. Era italiana. Era anche una schiava, e come una schiava è stata fatta morire. Eppure oggi, otto anni dopo, rischia di non avere giustizia: un processo è già finito con un’assoluzione, un altro rischia di finire in prescrizione, probabilmente già in primo grado. Certamente in appello.
Paola Clemente è la bracciante pugliese ammazzata dalla fatica il 13 luglio del 2015: raccoglieva acini d’uva per tre euro all’ora a 160 chilometri da casa sua, lei di San Giorgio Jonico, il campo dove è morta ad Andria, sotto il sole a 40 gradi, quando ebbe un malore improvviso.
Non stava bene dalla mattina, quando la portarono in ospedale era già troppo tardi. Paola lavorava per tre euro all’ora, eppure sulla carta era tutto in regola: nella sua borsa il caporale aveva messo una busta paga fittizia, per assicurarsi che tutto andasse bene in caso di controlli. E all’inizio era andata così: Paola era morta, i suoi cari l’avevano pianta, il suo corpo era stato seppellito. Poi però la cocciutaggine e la determinazione di suo marito, Stefano Arcuri, aveva fatto in modo che le cose non finissero come al solito: Stefano, con la Cgil accanto, aveva presentato una denuncia alla procura di Trani, il corpo della Clemente era stato esumato perché potesse essere svolta l’autopsia, un’inchiesta era stata aperta. E Paola, sin da subito, aveva dimostrato di essere speciale: davanti alla sua morte, così incredibile, eppure così incredibilmente banale in quel mondo, anche le sue colleghe avevano deciso di non stare zitte. Nonostante le minacce del presunto caporale, nonostante la certezza di non poter lavorare più, avevano deciso di sfilare davanti al magistrato per raccontare cosa era accaduto. E soprattutto la modalità con cui si svolgeva ogni giorno il loro lavoro.Hanno depositato l’elenco delle loro giornate di lavoro effettive e di quelle che, invece, venivano denunciate all’Inps: meno della metà. Hanno portato le buste paga vere e quelle fasulle, raccontando cos’era accaduto quel 13 luglio: «Paola non stava bene. Ha chiesto di tornare indietro, ma tutti continuavano a ripeterle che era impossibile perché dovevano accompagnare le altre donne per la giornata in campagna. Ha chiesto allora di poter parlare con il marito per farsi venire a prendere. Andria è troppo distante da San Giorgio Jonico, le hanno risposto, consigliandole di sedersi all’ombra di un albero così il malessere le sarebbe passato in fretta». Non è passato. Paola Clemente è diventata un simbolo: la Flai Cgil e la Cgil Puglia, con l’allora segretario Pino Gesmundo, hanno creduto che il suo sacrificio potesse diventare un monito. La nuova legge sul caporalato, la 199, nata un anno dopo la sua morte, è dedicata a lei. “La legge di Paola” l’hanno chiamata. Eppure non è bastato.
La morte della bracciante ha dato vita a due fascicoli: il primo, per omicidio colposo, a carico del proprietario dei campi dove Paola lavorava, è finito con un’assoluzione. «Aspetteremo di leggere le motivazioni e presenteremo appello», dice l’avvocato della famiglia, Giovanni Vinci. Il punto è però che anche il secondo fascicolo, quello contro i presunti caporali, rischia di finire nel nulla. A quasi otto anni di distanza dai fatti si è ancora al dibattimento. «Procura e tribunale hanno dato un’accelerata, ma è un reato che si prescrive in sette anni e mezzo — spiega l’avvocato — speriamo di farcela almeno per avere una sentenza di primo grado. Ma è difficile. Certamente in un eventuale appello sarà tutto prescritto». Nel mezzo restano le parole del marito, Stefano (oggi ospite a Repubblica delle Idee con l’ex presidente della Camera, Laura Boldrini): «Nessuno potrà ridarela vita a chi l’ha persa per eccessivo lavoro, per eccessivo caldo, per sfinimento. Nessuno potrà toglierci il dolore. Ma abbiamo il dovere di dire ai nostri figli che un mondo diverso è possibile». E non lo stiamo facendo.
La Repubblica, 11/06/2023
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