di Alessandro Puglia
Una società impaurita, dilaniata e «immiserita anche nel corpo» saluta in quella lontana estate dell’1943 l’avanzare delle truppe alleate nel vuoto materiale e immateriale generato dalla guerra.
Tra la notte del 9 e del 10 luglio di quell’anno i cieli e le spiagge siciliane diventarono il teatro di quella che fu la più imponente operazione militare delle forze alleate, pianificata in ogni dettaglio, alla luce della missione in Nord Africa e dopo i bombardamenti a tappeto a partire da maggio. A 80 anni da quell’estate dell’altro millennio, “Repubblica” ripercorre la fase cruciale della storia della Seconda guerra mondiale con un libro, “Lo sbarco”, in omaggio con il quotidiano da giovedì. «Con l’invasione alleata finì la guerra in Sicilia e i nemici si trasformarono in liberatori», spiega Manoela Patti, 47 anni professoressa associata di Storia contemporanea del dipartimento di Scienze politiche e Relazioni internazionali dell’Università di Palermo, che sull’argomento ha pubblicato il volume “La Sicilia e gli Alleati. Tra occupazione e Liberazione” (Donzelli, 2013).
La storica Manoela Patti |
Tra le questioni più dibattute che ruotano attorno alla storia dello sbarco c’è quella del presunto contributo della mafia: «Gli Alleati — dice la storica — considerando l’imponenza della propria forza militare non ne avevano certo di bisogno, così come non ne hanno avuto in Normandia.
La mafia in Sicilia era già presente e come è accaduto in diverse fasi della storia si aggrappa al vuoto sociale e politico, in questo caso generato dagli effetti della guerra».
Quali furono le difficoltà che incontrarono gli Alleati durante lo sbarco in Sicilia?
«È una fase di grande complessità e sarebbe un errore dire che lo sbarco non ha incontrato alcun tipo di resistenza. La notte tra il 9 e il 10 luglio le condizioni metereologiche avevano creato non poche difficoltà ai primi mezzi aerei che sorvolavano il Mediterraneo, il lancio dei primi paracadutisti a Gela e successivamente a Siracusa fu un massacro. Pesanti bombardamenti avevano colpito diverse città della Sicilia come avvenne a Palermo il 9 maggio del 1943 e un paio di settimane dopo a Messina.
Pantelleria fu rasa al suolo. Nei primissimi giorni dello sbarco ci furono aspri combattimenti nei principali luoghi di arrivo delle truppe tra Gela, Licata, nel Siracusano e nella piana di Catania.
A Gela gli Alleati trovano i contrattacchi della Divisione Livorno e ancor di più dei soldati tedeschi. Morirono migliaia di soldati su entrambi gli schieramenti, tantissimi furono i prigionieri e i disertori. Nei primi dieci giorni dellosbarco oltre 100 mila su 300 mila soldati italiani erano prigionieri, circa 38 mila se ne andarono nelle proprie case che erano lì vicino».
Quale fu la reazione dei siciliani?
«Era un momento di grande smarrimento e paura. La popolazione che viveva nella miseria invocava la fine della guerra. I poveri vivevano in stato di povertà nei rifugi, c’erano malattie, si soffriva la fame. In questo contesto l’arrivo delle truppe Alleate fu quel segnale che poteva portare rapidamente allafine di quell’epoca. Ci sono foto che fanno parte ormai dell’immaginario comune dove le truppe alleate vengono ben accolte tra paesi e città della Sicilia ma anche qui ci sono esperienze diverse. Le città erano vuote, la fame era un’esperienza condivisa. Palermo era spettrale, vuota, abbandonata, i cadaveri erano ovunque sulle strade. In molti ricordano il lancio della cioccolata, le caramelle, la visione di quei giovani alti e robusti: era l’immagine del benessere che trionfava negli occhidi una popolazione immiserita anche nel corpo».
Fu più un’occupazione o una liberazione?
«Dal punto di vista storiografico fu un’operazione militare e quindi un’invasione. L’Italia fascista aveva però sposato un progetto preciso del futuro del mondo con la Germania nazista. La vittoria degli Alleati è l’affermazione di un progetto democratico, un elemento di pedagogia militare che è il fulcro dello sbarco degli Alleati, nato dopo mesi e mesi di riunioni. La Sicilia diventa quindi un laboratorio di ricostruzione della democrazia e di restituzione delle libertà al fine di ricomporre la vita sociale dell’intero paese. Un progetto di accompagnamento per gli italiani che in 20 anni hanno subito una dittatura, un regime. L’obiettivo diventa quindi ricostruire quei contatti con le forze democratiche antifasciste della Sicilia, i sindaci prendono il posto dei podestà. Gli Alleati hanno il compito di rieducare la società a partire da quel lembo d’Europa dove comincia la caduta del nazifascismo. Su entrambi i fronti ci furono comunque episodi di stragi di civili perché la guerra porta con sé la violenza. Fu un’invasione militare ma alla fine la Sicilia fu liberata dal nazifascismo».
Come collocare la presenza della mafia durante lo sbarco degli Alleati?
«La mafia non c’entra nulla con le operazioni dello sbarco. Gli Alleati arrivano in Sicilia con un esercito potentissimo, al massimo delle sue risorse, alla luce della vittoria nella campagna in Nordafrica nel 1942. La propaganda per volere di Franklin D. Roosevelt, presidente degli Stati Uniti, insisteva su un concetto di guerra fratricida proprio per la presenza di tanti soldati italo-americani. Una fratellanza costruita sul ponte dell’immigrazione. Ci furono poi anche unità diintelligence civile che sfruttarono il contribuito degli italo-americani per garantire un consolidamento delle relazioni con gli occupati. La mafia in Sicilia esisteva già da tempo ed è un dato reale che alcuni sindaci del post-sbarco erano legati ad associazioni criminali. Regnava il caos ed è in questo vuoto politico e sociale che si inserisce il contesto mafioso. Ciò che avviene nelle fasi successive della storia con la presenza della mafia non era legato agli obiettivi prefissati dalla strategia militare degli Alleati. La mafia non è né la responsabile né l’artefice di quello che accade in Sicilia tra il luglio e l’agosto del 1943. Se poteva essere una risorsa o uno strumento di governo non era una questione che i comandi alleati si ponevano».
la Repubblica Palermo, 21/5/23
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