lunedì, aprile 03, 2023

L’EDITORIALE. Il peccato della destra reticente sul fascismo

Ignazio La Russa

di EZIO MAURO

Non è un problema di galateo, signor presidente del Senato: riguarda la concezione della democrazia

Dunque il giorno dopo La Russa fa marcia indietro nel giudizio su via Rasella e chiede scusa “a chi ha trovato motivi per sentirsi offeso”. È una tattica consolidata, che procede tra provocazione e dissimulazione. Si forzano i muri maestri del sistema, si saggia la loro resistenza, si misura la coscienza nazionale del limite, spostandola continuamente più in là. Se è ancora troppo presto, e il Paese reagisce al sacrilegio costituzionale, nessun problema: basta chiedere scusa, arretrare un poco, dare la colpa a un fraintendimento, a una semplice sbadatezza istituzionale: che sarà mai... 


L’importante è aprire ogni volta una crepa nel senso comune, nella responsabilità politica e nel discorso pubblico, e sempre nella stessa direzione: la neutralizzazione del fascismo storico, la delegittimazione dell’antifascismo come esperienza fondante della Repubblica, riconquista nazionale della democrazia e della libertà. Da qui, da questa crepa si ripartirà domani, con un nuovo azzardo costituzionale: intanto la faglia reazionaria lavora. 
Ma non è un problema di galateo, signor presidente del Senato: è una questione molto più seria, perché riguarda addirittura la concezione della democrazia. Fin qui, al nodo decisivo della democrazia, arriva infatti l’onda del rifiuto ostinato - o dell’incapacità - di dare un giudizio storico, morale e politico sulla natura del fascismo da parte della destra estrema che guida oggi l’Italia. Uscendo una buona volta dalla parzialità di un’analisi ridotta sempre e comunque a episodi isolati e a momenti specifici, in uno sminuzzamento della storia che nega una valutazione complessiva del ventennio, mentre consente di presentare le vicende criminali che si condannano come eccezioni e deviazioni dalla retta via mussoliniana, indenne e impregiudicata, sottratta pervicacemente a qualsiasi sentenza. 
Questa procedura è prima di tutto opportunistica, in quanto permette di evitare il dovere del rendiconto, indispensabile per ogni governance politica consapevole di dover rispondere ai cittadini anche dopo la vittoria elettorale, in una trasparenza costante sottoposta a una verifica permanente. Un rendiconto che diventa obbligatorio in particolare per una classe dirigente nuova, che viene dal buio dell’antisistema e deve spiegare il cammino compiuto e la direzione di marcia dall’eredità neofascista fino ad oggi. Ma in più, e in realtà, questa procedura è occultista: perché nasconde la responsabilità generale del fascismo che discende direttamente dalla sua natura violenta e totalitaria, dal suo autoritarismo e dalla pratica costante di sopraffazione della libertà. È stupefacente che persone con l’età di Giorgia Meloni,proiettate nel secolo nuovo con il carico delle lezioni della storia novecentesca, non percepiscano l’opportunità più ancora del dovere di prendere infine le distanze da quell’esperienza sciagurata dell’Italia, semplicemente in nome della democrazia. 
Non si tratta infatti di rimanere prigionieri del passato, di fronte all’urgenza dei problemi attuali del Paese, come ripetono gli intellettuali-enzimi impegnati duramente a sciogliere i nodi di ogni contraddizione prima ancora che arrivino sul tavolo di palazzo Chigi. Si tratta al contrario di parlare di oggi, svelando finalmente il fondo della cultura e del pensiero che muove questa destra radicale alla guida dell’Italia. Cinque mesi dopo la presa del potere grazie al libero voto dei cittadini, infatti, non si capisce ancora qual è e su cosa poggia la concezione della democrazia di Meloni e La Russa. Non basta dirsi conservatori, come se la parola fosse un abracadabra che spalanca le caverne spiegando e risolvendo da sola tutto, la fiamma, Almirante, l’agnosticismo sulla Marcia su Roma, la venerazione domestica del duce bronzeo. A un certo punto anche nella laica religione civile bisogna fare i conti con il peccato originale, sentire il dovere di misurarne la portata e il peso e finalmente discostarsene pubblicamente, usando l’unico criterio risolutivo, quello della democrazia, peraltro impiegato da Fini quando definì il fascismo “male assoluto”, siglando la sua dannazione a destra, tra i gerarchi silenziosi. 
Ora gli stessi colonnelli occupano gli scranni delle istituzioni e del governo, insensibili al dovere del giudizio come la presidente del Consiglio. E a questo punto la reticenza così insistita da mancanza diventa scelta, cioè atto politico, avvalorato dalla sostituzione consapevole dell’antifascismo con l’agnosticismo. Dunque per questa cultura politica permane ancora oggi qualcosa da salvare nel fascismo, se non riesce a separarsene con la libertà del giudizio. Anzi, il silenzio stesso si trasforma in giudizio di benevolenza, di eredità, di condiscendenza, di affinità. 
C’è nell’opinione pubblica una sorta di pudore democratico nel trovare un nome a questo atteggiamento politico che riduce a puro formalismo il rispetto per la Costituzione, e anche il giuramento di fedeltà: come se questa deriva della nuova ed eterna destra fosse impronunciabile prima ancora che incompatibile. Ma mentre l’opinione democratica tace, gli altri parlano e allargano la crepa democratica, sempre rifiutandosi di dire che il fascismo è l’offesa capitale della democrazia, e per questo va respinto. Forse la parola per definirli esiste, e non l’ha coniata un bolscevico, ma il presidente degli Stati Uniti per i trumpisti scatenati: “semi-fascisti”. 

La Repubblica, 3/4/23

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