GIUSEPPE SAVAGNONE
Responsabile del sito della Pastorale della Cultura dell'Arcidiocesi di Palermo, www.tuttavia.eu. Scrittore ed Editorialista.
Nessun problema
La notizia, apparsa su tutti i giornali di qualche giorno fa, che l’attrice spagnola Ana Obregón è appena divenuta madre di una bambina, con la tecnica della Gpa (gestazione per altri) o maternità surrogata, ha colpito un’opinione pubblica europea che sembrava ormai assuefatta a questo tipo di genitorialità. Forse perché la Obregón ha 68 anni. O forse perché ha rivelato che il seme impiantato nell’utero della donna che ha svolto il ruolo di madre surrogata era di suo figlio, deceduto nel 2020 per un tumore, cosicché legalmente la bambina che è nata risulta legalmente sua figlia, ma è biologicamente sua nipote.
Il tutto a fil di legalità, perché il parto è avvenuto in Florida, dove il ricorso alla gpa è permesso. «Legalmente è mia figlia, e così viene indicato sul suo passaporto. La registrerò presso il Consolato spagnolo e così potrò portarla a casa», ha detto l’attrice. Precisando che spiegherà tutto, appena possibile, alla figlia/nipote: «Le dirò: “Tuo papà è in cielo e prima che tu arrivassi era ciò che più desiderava al mondo, e tua mamma è una donatrice”, e basta. Che problema c’è?».
Già, che problema c’è? Dai sondaggi di opinione fatti nel nostro paese – il più legato, tra quelli europei, alla tradizione cattolica, risulta che la maggioranza dei cittadini italiani è favorevole alla Gpa. A differenziare gli elettori dei partiti al governo e quelli dell’opposizione (sia di centro che di sinistra) è solo il fatto che tra i primi la maggioranza è di coloro che la approvano solo nel caso di coppie eterosessuali sterili, mentre tra i secondi prevalgono quelli che la vorrebbero anche per le coppie gay.
L’argomento, continuamente riproposto, è “l’interesse dei bambini”. Dove forse ci sarebbe da chiedersi se davvero l’interesse di una bambina sia di essere concepita e di essere fatta nascere in una famiglia dove non avrà padre e avrà per madre una anziana nonna.
Il gender fluid
Quello che conta, si dice, è l’amore. Una parola magica, che oggi viene utilizzata per giustificare come pienamente legittimo ogni sorta di comportamento. Perché non è solo la Gpa ad essere entrata nel nostro modo comune di pensare attraverso questa via. Penso – per citare un fenomeno ampiamente pubblicizzato nell’ultimo festival di Sanremo – , alla diffusione del gender fluid, che non è riconducibile né all’omosessualità né alla transessualità, perché entrambe queste tipologie implicano comunque una ben precisa identità sessuale, mentre il gender fluid rifiuta a priori, precisamente, ogni etichetta precostituita e affida le scelte sessuali alla più totale e imprevedibile libertà dei singoli che le fanno.
Qui è chiaro un salto di qualità rispetto alle caratterizzazioni precedenti. Sia il transgender che l’omosessuale insistono spesso nel sottolineare che la loro non è una scelta, ma una condizione in cui – per fattori biologici e/o psicologici – si trovano, a prescindere dalla loro visione delle cose e dalla loro volontà.
La persona “fluida” esercita, invece, una forma di libertà assoluta, per cui le etichette “uomo” e “donna” sono intercambiabili in maniera del tutto arbitraria, e vede in questa apertura illimitata la garanzia di una maggiore ricchezza di esperienze.
Sempre in nome dell’amore. «L’amore non deve essere etichettato. Questo va portato dovunque, anche in televisione», ha detto nella conferenza stampa di apertura del festival il conduttore e direttore artistico, Amadeus.
Se questo è amore
Dove però il rischio è di usare come uno slogan una parola di cui non si precisa il contenuto. Rischio tanto più grande in quanto, in base ad essa, si ritiene di poter rivendicare dei diritti che hanno una ricaduta sulla vita di altre persone e dell’intera collettività. Così dal modo di intendere l’amore della Obregón sarà segnata tutta l’esistenza di una bambina che la chiamerà “mamma”, sapendo però di essere stata concepita nell’utero di un’altra donna – con cui ha trascorso nove mesi nella simbiosi che unisce, biologicamente, la gestante e il nascituro – e dall’ovulo di una terza donna, la donatrice. E che apprenderà di essere nata non dall’amore di suo padre per sua madre, ma dalla volontà di un’anziana signora di perpetuare il ricordo del proprio figlio. Forse a questa bambina qualche spiegazione su che cosa la madre/nonna (in realtà la committente) intenda per “amore” sarebbe dovuta…
Come dovrebbe essere dovuta anche a coloro in cui il gender fluid in cerca di esperienze si imbatte e che magari si innamorano davvero di lui o di lei, prima di scoprire che la persona a cui si sono donati non è né un “lui” né una “lei”, ma un buco nero che attrae, inghiotte e consuma tutto ciò che gli capita a tiro.
Dove si evidenzia la falsità della formula secondo cui la libertà di ciascuno finisce dove comincia quella dell’altro. La scelta della Obregón non ha invaso la sfera di nessuno, perché la bambina ancora non c’era. La scelta del gender fluid che ogni giorno può cambiare la sua identità sessuale riguarda la sfera più personale e intima della sua umanità. Eppure, in entrambi i casi, è evidente che la vita degli altri dipende anche dalle nostre scelte più private e che non esiste affatto alcun ambito della nostra libertà in cui possiamo credere di non doverne risponderne ad essi.
Soprattutto, però, si evidenzia che la parola “amore” non può essere invocata per giustificare la nostra irresponsabilità. Nel suo senso più antico e più profondo, essa non si è mai prestata ad indicare un qualunque arbitrario desiderio soggettivo, ma solo quello che ha come oggetto principale il bene dell’altro.
L’esperienza di ogni giorno ci mostra la differenza tra questi due sentimenti. Il mondo è pieno di persone che “per amore” distruggono la vita altrui. “Per amore” si commettono i femminicidi del cui dilagare parlano le nostre cronache. “Per amore” accade che madri possessive soffochino la personalità dei loro figli. Perfino i pedofili – leggiamo in un testo scientifico della Bollati Borighieri su «Pedofilia e psicoanalisi» – giustificano ai propri occhi le loro squallide violenze «appellandosi talora anche all’etimo per protestare la liceità del loro “amore per i bambini”».
Ma l’amore autentico è un’altra cosa. Non si tratta, certo, di confonderlo con l’altruismo. Amare qualcuno non significa sacrificare il proprio bene a quello della persona amata, ma cercare l’uno nell’altro e sentirsi felici – realizzati veramente – perché la persona amata lo è. Da qui l’impegno a fare tutto il possibile perché lo sia. L’amore – quello autentico – dà origine a doveri, prima che a diritti.
La strumentalizzazione dell’altro
Anche quando questa persona ancora non c’è – come nel caso di un bambino non ancora concepito – , l’amore non può prescindere da questa intenzione. Oggi molte coppie, e non solo quelle omosessuali, vogliono dei figli per la loro gratificazione. Se ne sente la mancanza come una frustrazione e si crede che il desiderio di averne sia un diritto. È qui che nasce la pretesa della legittimazione della gpa. Non ci si chiede se li si renderà felici. La genitorialità, invece di essere finalizzata al figlio, è vissuta come un’autorealizzazione.
La gpa porta a perfezione questa logica, consentendo anche di stabilire in anticipo le caratteristiche del “prodotto” che meglio risponde alle proprie esigenze. Il problema non riguarda solo le coppie gay. E questa impostazione non influisce solo sulle modalità del concepimento e della nascita, ma peserà inevitabilmente in modo determinante sul rapporto tra genitori e figli per tutto il loro sviluppo, distorcendolo radicalmente.
Così pure, l’amore che vuole il bene dell’altro/a non può stabilire con lui/lei un rapporto che si sa in anticipo essere condizionato dalla propria volubile identità sessuale. Anche se l’altro/a accettasse consapevolmente fin dall’inizio questo rischio, è la logica oggettiva della relazione che è unilateralmente sbilanciata. La provvisorietà, fisiologica in ogni “stare insieme”, qui riguarda non solo i sentimenti, ma l’identità stessa di uno dei due, che rifiuta a priori a impegnarsi ad essere stabilmente se stesso/a. O, meglio, che ripone il suo essere se stesso/a in questa instabilità. In un tale rapporto almeno uno dei due sa fin dall’inizio di non rispondere all’altro di quello che è. Se poi sono entrambi gender fluid, c’è da chiedersi se non si tratti soltanto del gioco tra due maschere. La parola “amore” potrà essere certamente esibita in televisione come etichetta di simili relazioni, ma significa un’altra cosa rispetto a quello che si intendeva e che nella tradizione l’ha resa degna di rispetto, quali che ne siano le condizioni. Paolo e Francesca erano adulteri, ma si amavano. Il cambiamento che oggi registriamo non ha a che fare con la morale, ma con il senso che diamo all’umano.
Si presenta questo come un modo per scardinare i paradigmi e rendere libere le persone. Senza rendersi conto che in questo modo si sta costruendo un nuovo paradigma, fondato, però, sull’autoreferenzialità invece che sulla relazionalità, sul capriccio del singolo invece che sul rispetto dell’altro.
Un paradigma, peraltro, in perfetta sintonia con la cultura di una società consumista, abituata a misurare il valore delle cose e della vita in funzione di un individualismo autoreferenziale, che abitua fin da piccoli a considerare gli altri solo in funzione di se stessi e dell’appagamento che se ne può trarre.
La sola difesa da questa deriva –dilagante sull’onda delle mode, della pubblicità e dei social – è la riflessione. A cominciare da quella sul senso delle parole che tutti usano. L’atto rivoluzionario per eccellenza, di fronte agli slogan oggi correnti, è chiedere: «Che significa?». E questo è anche il servizio più prezioso a chi li ripete.
Tuttavia.eu, 6/4/2023
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