Daouda Diane |
Daouda Diane, 37 anni dalla Costa d’Avorio, è un mediatore culturale e operaio scomparso nel nulla ad Acate (Ragusa) dopo aver denunciato in alcuni video le condizioni di assoluta insicurezza in un cementificio dove lavorava. Viaggio ad Acate dove l’operaio ivoriano è scomparso nel nulla. Il mistero del terreno asfaltato
Dalla nostra inviata Alessia Candito
ACATE — «Il mio corpo è qui, il mio cuore e la mia testa non più». Marciré Doucouré è seduto allo stesso tavolo che per anni ha diviso con Daouda Diane, il giovane mediatore culturale ivoriano scomparso nel nulla il 2 luglio scorso ad Acate. «Anche l’ultima sera era lì, dove stai seduta tu. Aveva cucinato lui, io ero andato a pregare. Chi poteva immaginare che sarebbe stata l’ultima volta che l’avrei visto?».
Da allora sono passati più di nove mesi, ma di Daouda sono rimasti solo quei due video che ha inviato prima di sparire nel nulla. Marciré li ha ancora sul telefono, di tanto in tanto li riguarda. «Li ha mandati quella mattina, era un sabato. Quando lunedì non è tornato, ho capito che non lo avrei rivisto» . In uno lo si vede all’interno della betoniera, con un martello pneumatico in mano e solo una cenciosa mascherina a coprirgli la bocca. Nell’altro, la sua voce arriva da fuori campo. «Qui il lavoro è duro, si muore qui. Molti di noi - lo si sente dire - raccontano ai propri familiari di lavorare in fabbriche di vestiti o di avere impieghi più “nobili” perché si vergognano. Questo è l’inferno, questa è la morte». Le immagini sono quelle desolanti del cantiere della Sgv, noto cementificio di Acate di proprietà della famiglia Longo.
Il legale rappresentante, che fin dal principio ha provato a negare persino la presenza di Daouda in azienda, salvo poi tentare di ridimensionare - in primo luogo in termini di tempo - la sua presenza lì, per poi finire a giurare che da quel piazzale se ne sarebbe andato «con le proprie gambe», è al momento l’unico indagato dalla procura di Ragusa che procede per omicidio e occultamentodi cadavere. Che si sappia, ispezioni e rilievi che con il fuso orario di sei mesi i Ris hanno fatto in fondi e cave di famiglia, non avrebbero portato a nulla. Ma le tracce di Daouda si fermano lì, nel cantiere della Sgv, dove sperava di tirare su qualche guadagno extra. Stava per tornare a casa dopo anni e in Costa d’Avorio ci sono non solo la moglie e il figlio, ma intere famiglie quelle del fratello, della sorella, la madre - che dipendono da lui. Meglio, dipendevano. «Adesso mi mandano messaggi quasi ogni giorno - dice mentre abbassa lo sguardo e liscia la tovaglia di plastica - ma io non ho più il coraggio o la forza di rispondere. Cosa dovrei dire? Che ancora non si sa niente? Che in un paese piccolo come questo nessuno ha visto niente? Anche gli altri ragazzi africani che lavorano qui in zona non se lo spiegano. Sanno solo che hanno paura, temono che possa succedere anche a loro». È stanco Marciré, sfiduciato. É tornato da poco dalla Francia, dove vive la sua famiglia e dove forse in futuro si trasferirà anche lui. «Non ho più nulla che mi leghi a questo posto. Daouda era la mia famiglia. Siamo arrivati in Italia insieme, stessa barca, stesso centro dopo, stesso percorso da mediatore. Era un fratello e non ho neanche un corpo da piangere» . Gli basterebbe questo. Poterlo lavare e comporre come l’Islam comanda, seppellirlo, sapere cosa sia successo. «Ho smesso di andare dai carabinieri, ogni volta allargavano le braccia. E poi mi hanno visto già troppe volte lì». Chi? «Ad Acate sanno che è successo» . Chi? Marciré abbassa ancora una volta lo sguardo. Scuote la testa, alza gli occhi. «Forse tutti».
Fuori, i riti della settimana santa il paese lo vedi sfilare in processione con il vestito buono e le scarpe lucide. Il tempo matto ha confuso molti e i tailleur dagli sgargianti colori estivi si mischiano a cappotti e pellicce. A breve ci saranno elezioni e sul corso principale i faccioni cartonati dei candidati sindaco si sporgono dalle vetrine delle segreterie politiche. «Nessuno ha mai neanche accennato alla scomparsa di Daouda» , dice un sindacalista che chiede l’anonimato e spiega che ormai ad Acate preferisce non girare da solo. Perché in piazza ci si augura «buone feste», ma il paese è occhiuto e se una faccia nuova gira troppo, si ritrova con ombre ad accompagnarla. Perché «qui è un posto tranquillo» ci si affretta ad assicurare, ma Acate e il ragusano sono terre di mafia, dove persino il palio nel 2010 è stato annullato e mai più autorizzato perché «gli accertamenti condotti sui fantini e proprietari di cavalli, nonché l’attività info-investigativa fanno ritenere la sussistenza di interessi della criminalità organizzata e collegamenti con quella di stampo mafioso». E da ancor prima sono terre cerniera dove i palermitani poi diventati “scappati” avevano messo radici in tempi non sospetti e da perdenti hanno iniziato a brigare con gli “stiddari”, dove chi ha vinto la guerra è arrivato a rincorrerli. Ne è venuto fuori un conflitto da decine di morti. Anche il patriarca dei Longo, Salvatore, è stato ucciso nei pressi di Vittoria, dopo un breve inseguimento. Già un anno prima era scampato ad un attentato. Investigatori all’epoca in servizio - erano gli anni Novanta - lo indicano come il reggente di zona, con pale ed escavatori ras dei subappalti in tutto il ragusano, ma non c’è processo in cui come tale sia stato condannato. All’epoca dell’omicidio, la sua fedina penale era da pregiudicato “solo” per rapina ed estorsione. Anche uno dei figli, Giovanni, di recente è rimasto invischiato in un’inchiesta antimafia per aver messo ditta e terreni a disposizione della Stidda che illegalmente smaltiva plastica delle serre e fanghi tossici, zeppi di fitofarmaci.
Ad Acate però inchieste e processi ufficialmente sono solo «qualche problema», al pari degli incidenti mortali sul lavoro nelle ditte di famiglia chiusi con condanne risibili e senza gran rumore, mentre al bar di uno dei nipoti del patriarca si continua a fare la fila per l’aperitivo e ci si dà gli auguri. Del resto, per quanto chiacchierata sia la famiglia, con ditte come la Treelle non ha avuto problemi da avere appalti pubblici, come quello assegnato in via diretta e in fretta e furia per la pulizia di spiagge, parcheggi, lungomare nel giugno 2020. «Ma basta con le storie vecchie», si taglia corto.
Però poi il paese sibila, mormora. E ricorda e spiffera che vicino alla Sgv c’era un terreno che fino all’inizio dell’estate scorsa era una grande buca a cielo aperto. Non dista tanto. Percorrendo la strada non saranno più di settecento metri, meno di tre minuti con un mezzo. Adesso è completamente asfaltato. Una chiazza di bitume in mezzo a campi e ulivi. Coincidenze, magari. Ma anche lì sarebbero stati fatti controlli e ispezioni, «non risulta però che qualcuno abbia scavato». I Ris sono andati di certo a bussare e ispezionare una vecchia azienda di famiglia, anche quella non lontana dalla Sgv. Ma è successo mesi dopo la scomparsa di Daouda, per i primi trenta giorni trattata come sospetto “allontanamento volontario”. C’è anche chi per mesi ha continuato a ipotizzare una rapina finita male, sebbene a casa di Daouda siano stati trovati tutti i suoi documenti. Alla fine, i principali sospetti si sono sempre concentrati sulla Sgv e la famiglia a cui appartiene. «Chi sa, parli» , ha chiesto il procuratore Fabio D’Anna. Da Acate è arrivato solo silenzio.
Un muro di gomma che il primo maggio Cgil, Libera, Emergency, associazioni del terzo settore proveranno a rompere con una manifestazione ad Acate. «Per accendere i riflettori sul lavoro povero, sfruttato, invisibile» , dice il segretario regionale Cgil, Alfio Mannino. Per dire che non è accettabile che un lavoratore scompaia senza lasciare traccia. E toccherà ad Acate decidere se continuare a tacere e restare a guardare.
La Repubblica Palermo, 9 aprile 2023
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