di Massimo Gramellini
La prima reazione non può essere che di sconforto: se le accuse saranno confermate, ci siamo giocati pure la preside della scuola palermitana intitolata a Giovanni Falcone. Proprio lei, Daniela Lo Verde, santino della lotta alla mafia, insignita da Mattarella del cavalierato al merito e intervistata dalle tv di mezzo mondo in veste di paladina del riscatto di un quartiere disagiato. Quella che diceva: «Noi insegniamo legalità persino durante la ricreazione». E ora eccola, la signora Legalità, intercettata mentre si appropria dei computer pagati con i fondi europei, tarocca le firme degli allievi per giustificare il finanziamento di corsi mai realizzati e ordina alla figlia di prelevare riso, origano, tonno e sacchetti di patatine regalati alla mensa della scuola per rimpinguare la dispensa della loro casa al mare. Quando la declamata bontà sconfina nella presunzione di impunità.
Verrebbe voglia di non credere più a niente, come succede a quelli che credono a tutto, comprese le madonne piangenti e i complotti dei rettiliani. Il famigerato «storytelling» ci ha convinti che un ideale, per arrivare al cuore, abbia bisogno di appoggiarsi emotivamente alla favola di una persona, col bel risultato che quando la persona si rivela una delusione, anche l’ideale finisce per subire la stessa sorte. Ma è un atteggiamento puerile, un delegare ad altri qualcosa che è nostro. Se l’antimafia è una bandiera, siamo noi il vento che la fa sventolare, a prescindere dalla coerenza di chi la impugna.
Il caffè di Gramellini
Corriere della sera, 22/4/23
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