SARA PERINETTO
Giovanni Di Marco ne "L'avversione di Tonino per i ceci e i polacchi" racconta una società in cui nascondere crimini e sofferenze è un comportamento da veri uomini d’onore. Una società già addomesticata da una tradizione cattolica che fa un abuso sistematico dei concetti di punizione, colpa, vergogna, giustizia divina imperscrutabile: i bambini violentati sono prescelti dal Signore come lo è stata la Madonna, e ciò che per un altro sarebbe peccato per un prete non lo è.
È il 13 maggio 1981. Il mondo di Tonino sta per essere sepolto in una bara insieme a sua madre, morta di parto per dare alla luce il terzo figlio, Salvatore. «Ma che nome è per uno che nascendo ammazza sua madre? Salvatore di cosa? Semmai Ammazzatore».
Tonino ha sette anni, ha pianto tanto negli ultimi giorni e ora sta partecipando al funerale di sua madre, con la voglia di svegliarsi all’improvviso e scoprire che è già tutto finito. Non ne può più dei lamenti della zia Nunzia, degli sputacchi di padre Alfio che celebra messa sull’altare. Ma all’improvviso qualcosa succede: Ninì sbuca dalla sagrestia, sussurra all’orecchio del prete, che sbianca in volto. Hanno sparato al papa. Si sa solo che è grave, nulla più. Non c’è tempo da perdere: tutti a casa a guardare la tv e pregare, il funerale è finito. Zio Franco e papà possono andare al cimitero a seppellire la defunta, Tonino deve tornare a casa, confuso, geloso. Com’è possibile? «Lo so, Tonì, ma questa è una cosa importante.» «Più importante di mia madre?»
Inizia così L’avversione di Tonino per i ceci e i polacchi,
edito da Baldini+Castoldi, esordio letterario di Giovanni Di Marco, giornalista
freelance e autore della pagina Instagram The Booklover.
In un piccolo paesino della Sicilia degli anni Ottanta non è facile gestire
il lutto per Tonino. La zia, da cui si è dovuto trasferire a vivere, è più
occupata a salvaguardare il decoro familiare e le apparenze che a dargli amore.
Lo zio, da uomo capofamiglia, lavora tanto e parla poco. Il padre e la sorella
si sono chiusi in un mutismo sofferente e imbarazzato. Solo Tania sembra
salvarlo da questa morsa soffocante. Giovane ragazza tedesca neosposa di un
siciliano geloso e ignorantotto, Tania è vicina di casa di Tonino e riserva al
bimbo tutto l’amore e le attenzioni che non può dare a un figlio proprio. Per
Tonino Tania è un angelo. Ma per suo marito e il resto del paese, Tania, che è
bella, si trucca, non riesce a restare incinta, non ha paura di difendere le
proprie opinioni e se ne va in giro per strada da sola, persino in treno e in
corriera fino a Palermo senza un accompagnatore, è una «buttanazza». E
padre Alfio questo lo sa: ecco perché, quando Tania scopre gli abusi sessuali
che padre Alfio compie su Tonino, non si sente intimorito. E lo sa anche Tania
che la sua parola vale molto meno di quella del parroco del
paese, nonostante le prove e le testimonianze degli abusi che mostra
all’arcivescovo.
Il calvario di un bambino vittima di un pedofilo si unisce così al calvario
di una donna vittima di una società maschilista e patriarcale. Una società in
cui nascondere crimini e sofferenze è un comportamento da veri uomini d’onore.
Una società già addomesticata da una tradizione cattolica che fa un abuso
sistematico dei concetti di punizione, colpa, vergogna, giustizia divina
imperscrutabile: i bambini violentati sono prescelti dal Signore come lo è
stata la Madonna, e ciò che per un altro sarebbe peccato per un prete non lo è.
«Arrivai a immaginare che Dio ce l’avesse con me […] e che mi puniva attraverso
le grinfie di Padre Alfio», spiega Tonino. «Avevo paura di fare la cosa
sbagliata respingendolo, come se rifiutando le sue attenzioni avessi rifiutato
pure l’amore di Gesù Cristo.»
Con questa distorta visione dell’amore e dei rapporti umani, quel bambino
diventa adolescente, in un’Italia in cui i maschi crescono «a pane, pallone e
riviste porno» e devono costantemente dimostrare di essere veri uomini: fumando,
facendo apprezzamenti volgari alle ragazze, pagando prostitute, stuprando e
picchiando, se necessario a rivendicare il proprio diritto al sesso e al
possesso di una donna. E così, lo stesso sistema che aveva reso Tonino una
vittima lo rende poi un carnefice. I crimini si aggravano, le sofferenze si
moltiplicano, in una spirale di abusi distruttiva e autodistruttiva
apparentemente infinita.
La storia di Tonino è fittizia, ma identica a tante altre storie vere che
possiamo leggere sui giornali, e infatti Di Marco è partito da reali fatti di
cronaca, studiando l’argomento a lungo ‒ la gestazione di questo libro è durata
dieci anni. Tempi e luoghi, la provincia siciliana pronta a festeggiare i
Mondiali del 1982, accrescono la verosimiglianza della vicenda, perché sono gli
stessi in cui l’autore ha passato la propria infanzia. Di Marco riesce perciò a
restituirci in modo vivido e vero lo sguardo di un bambino di allora su un
mondo fatto di figurine di calciatori, di partite guardate alla tv del bar di
paese, di musicassette ascoltate con lo stereo, di un papa protagonista del
proprio tempo, che riesce a essere distante pur se fastidiosamente onnipresente
nei media. È lui il polacco richiamato nel titolo del libro: un papa che si
dice preoccupato per gli effetti delle nuove tecnologie sui giovani, ma che poi
sceglie il silenzio e si gira dall’altra parte quando quegli stessi giovani
vengono abusati dal clero. Un clero indulgente con i propri membri «caduti in
tentazione», pronto ad autoassolversi con un segno della croce e a fare
ostruzionismo alle indagini della polizia pur di preservare il proprio onore.
La narrazione, fatta sempre dal protagonista in prima persona, si svolge su
due piani: quella di lui bambino che vive i fatti raccontati e quella di lui
uomo, ormai cresciuto, che può interpretare criticamente i propri ricordi.
Questa dualità si riscontra anche nella struttura del libro: c’è una prima
parte, più rispondente al romanzo di formazione, incentrata sugli abusi subiti
da Tonino, e c’è una seconda parte che racconta le conseguenze di quegli abusi.
Conseguenze che Di Marco, con la sua prosa pulita, cruda e a tratti ironica,
indaga ed espone senza reticenze, per mostrare apertamente una tragica e
semplice verità: la violenza genera altra violenza. E se a questa si aggiungono
omertà e impunità, l’inferno diventa inevitabile. Alla fine del libro, infatti,
si salvano solo i carnefici: i preti pedofili continuano
a indossare la tonaca, e al massimo vengono trasferiti da una parrocchia
all’altra senza alcun tipo di punizione, anzi tra i ringraziamenti di sindaci e
parrocchiani. Per la vittima, invece, non c’è salvezza. Solo infinito dolore,
da patire dentro di sé o infliggere al prossimo suo come a sé stessa.
MicroMega, 3 Febbraio 2023
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