DI LIRIO ABBATE
Trentuno anni fa lo Stato era stato piegato da Cosa nostra che aveva piazzato l’esplosivo sotto l’autostrada di Capaci, facendo saltare in aria l’auto di Giovanni Falcone e dei suoi agenti di scorta. E 57 giorni dopo un’altra esplosione uccideva Paolo Borsellino e i poliziotti che avevano provato a proteggerlo. In quel frangente storico era lo Stato, e non Cosa nostra, ad essere in ginocchio. E questa debolezza è stata dimostrata proprio in quei giorni da alcuni uomini con le stellette che hanno bussato alla porta dei corleonesi per chiedere un’apertura di dialogo.
Forse quei carabinieri non si aspettavano, restando spiazzati, che il mafioso con il quale erano andati a parlare, Vito Ciancimino, veicolasse a Salvatore Riina il loro invito ad aprire un dialogo, che nelle intenzioni di Cosa nostra era destinato ad altri, probabilmente ai politici che stavano al governo.
Questi fatti non si possono cancellare con una sentenza di assoluzione definitiva per i carabinieri e gli altri imputati. Perché si tratta di una storia — riportata anche nelle motivazioni della decisione della Corte d’appello di Palermo che la Cassazione ha confermato — che non può essere processata nelle aule di giustizia. Perchésono fatti che non rientrano nel Codice penale, ma appartengono alla dignità di una società che vuole essere contro la mafia. Appartengono a chi si è sempre posto dall’altra parte della barricata, quella contro Cosa nostra. E non si può accettare l’idea di sedersi a parlare con i boss, soprattutto quando questi hanno scatenato l’inferno contro uomini dello Stato.
La richiesta di avere un dialogo nell’estate del 1992 è partita dagli uomini delle istituzioni e non viceversa. Nei confronti dei mafiosi non si può immaginare se non un contrasto frontale, duraturo, a tutto campo, senza cedimenti di sorta, anche quando diventano silenziosi e sembrano dormienti, così apparendo meno pericolosi. Il mafioso dovrebbe essere terrorizzato dallo Stato e dai suoi rappresentanti e non dovrebbe nemmeno poter immaginare di dialogare con loro. Ma questo è accaduto nel 1992 e non si può dimenticare.
Il tentativo iniziale di ricucire con Riina il filo di un dialogo — così come è stato rappresentato in questi tre gradi di giudizio — nell’intento di stemperare la tensione e far tacere le armi, comportava un grave rischio: quello di galvanizzare, come in effetti poi è accaduto, le fila dell’ala stragista, rafforzandone il convincimento che la strategia di attacco frontale allo Stato fosse la strada più sicura per strappare concessioni o costringere le istituzioni a più miti consigli nei riguardi di Cosa nostra. Nel senso di abbassare l’intensità dell’azione repressiva e ammorbidire sul versante carcerario il trattamento dei detenuti mafiosi.
Quella richiesta avanzata da autorevoli rappresentanti delle istituzioni con le stellette è stata interpretata come una manifestazione di debolezza dello Stato e un segno tangibile di cedimento al clima di violenza e di intimidazione mafiosa, alimentando la spirale della violenza mafiosa, invece di stemperarla. Per i giudici si è trattato di «un’iniziativa quanto mai improvvida». La vicenda della trattativa, a distanza di trentuno anni dalle stragi di Capaci e di via D’Amelio, rimane uno degli avvenimenti più opachi che ha attraversato i rapporti tra mafia e antimafia. E adesso il compito dell’accertamento della verità è destinato al giudizio degli storici.
La Repubblica, 28/4/23
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