di SAVERIO LODATO
E dove vogliamo cercarla questa benedetta borghesia mafiosa palermitana? Nei mercati di frutta e verdura? Fra le bancarelle che espongono il pescato del giorno? Nelle mense della Caritas o fra i derelitti di Palermo di cui si occupava Biagio Conte?
Smettiamola di giocare con le parole. La borghesia mafiosa palermitana andrebbe cercata in tante segreterie politiche; magari in qualche ovattata stanza di Palazzo d’Orleans o di Palazzo dei Normanni; in tanti uffici del gigantesco ventre burocratico che tiene in vita due terzi della città; nella ben oleata macchina che sforna incessantemente eventi culturali spesso tanto inutili quanto lautamente finanziati con il danaro pubblico; in studi medici o in studi notarili o in studi legali... E potremmo continuare per un bel po'.
Ho volutamente lasciato da parte, in quest’elenco, l’Università di Palermo. Perché l’argomento è assai delicato. Perché la definizione di “zona grigia” è definizione che irrita i luminari palermitani del diritto, convinti che la giustizia debba tener conto di una griglia ben definita, delimitata dal “bianco” e dal “nero”, e che quindi il “grigio” sia piatto appetitoso solo per giustizialisti e forcaioli, restii al concetto del “perdono”, e magari propensi alle “boiate pazzesche”. Insomma, la “borghesia mafiosa” - sembrano sottintendere - non imbraccia il fucile, e allora perché andare a stuzzicarla?
Però. Come si fa a tacere di fronte a quanto è accaduto l’altro giorno alla facoltà di Giurisprudenza di Palermo? Dove, a un gruppo di giovani universitari di quella stessa facoltà - associazione chiamata “Contrariamente” - è venuta la scomoda idea di invitare proprio il giudice Nino Di Matteo, a parlare degli argomenti che abbiamo trattato sin qui, e di tutto quello che ci ruota attorno.
Tema: “Tra riforme e lotta alla mafia: cosa è cambiato dal 1992 all’arresto di Matteo Messina Denaro?”. Dibattito che a quel che se ne sa - ma per sentito dire, visto che i giornali locali dell’Isola Felice non lo avevano considerato degno di menzione, poi se ne sarebbero accorti - ai ragazzi pare sia piaciuto molto e con l’aggiunta, da parte loro, di interventi e domande al magistrato Di Matteo.
Unica presente, per il corpo docente, la professoressa Daniela Chinnici. La quale dice: “Il maxi processo è stato un obbrobrio”. Badate bene: il “maxi” processo del pool di Palermo, quello composto da Antonino Caponnetto, e Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. La professoressa non si riferiva, infatti, alla “boiata pazzesca”, come il professore Giovanni Fiandaca definì, in una sua indimenticabile intervista al Foglio, il processo sulla trattativa Stato-Mafia.
Infatti la professoressa è andata avanti, a pensiero libero, spiegando agli allievi che “i maxi processi sono congegni eversivi del sistema”. E ricordando, infine, i bei tempi andati della facoltà di Giurisprudenza, quando il suo maestro, il preside del tempo, Giovanni Tranchina - viventi Falcone e Borsellino - se la prese con i maxi processi che “degradavano ad arnese di polizia, dove trovavano posto criminali promossi a collaboratori di giustizia”. A Di Matteo, fra gli applausi degli studenti, è toccato ricondurre la professoressa sulla strada della buona logica e del buon senso.
Ma lei, quasi a scusarsi, ha detto una frase che ci ha colpito molto: "Non capisco perché questa reazione, quando dico queste cose ai miei studenti ci capiamo”. Già. Si capiscono. Sarà. Ma sì, la borghesia mafiosa è come l’araba fenice, che ci sia ciascun lo dice dove sia nessun lo sa”.
Saverio Lodato
Antimafia duemila, 19 marzo 2023
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