domenica, marzo 05, 2023

L’ANALISI. La retorica sicilianista del boss: proclami secolari, slogan anni ’70


Il “ manifesto” mostra molta pratica di lettura. La frase “Siamo un’etnia da cancellare” sembra scritta da uno studente di antropologia di qualche tempo fa

di Franco Lo Piparo

Non sottovalutiamo Matteo Messina Denaro. Invito a leggere attentamente il manifesto sicilianista, datato 15 dicembre 2013, che è stato trovato a casa della sorella. Anzitutto la forma. L’autore mostra di avere eccellente padronanza della lingua italiana e molta pratica di lettura di testi letterari. L’uso della punteggiatura è ineccepibile: virgole, due punti, punti e virgole, punti sono gestiti con molta sapienza. Insomma i pizzini di Matteo Denaro nulla hanno a che fare con i pizzini di Riina e Provenzano. “Pizzini” non è la parola adeguata per nominarli. 


Andiamo al contenuto del testo-pizzino politico. È un documento di sicilianismo colto che è stato sempre presente nella storia della Sicilia a partire almeno dal XVI secolo. «Siamo diventati un’etnia da cancellare». È una frase che colpisce per l’insieme delle letture che presuppone. Etnia da cancellare: sembra scritta da uno studente (docente?) di antropologia e etnologia negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso. 
Una etnia che si vuole cancellare va difesa come è giusto difendere chi subisce un torto. «Siamo figli di questa terra di Sicilia, stanchi di essere sopraffatti da uno Stato, prima piemontese e poi romano, che non riconosciamo». L’orgoglio della propria sicilianità («Siamo siciliani e tali volevamo restare») viene fatto coincidere con l’orgoglio di essere mafiosi: «Essere incriminati di mafiosità, arrivati a questo punto, lo ritengo un onore». 
La missione storica della mafia è la difesa dell’etnia siciliana. Chi ci vuole cancellare ci ha «perseguitati come fossimo canaglie, trattati come se non fossimo della razza umana». I nemici della sicilianità «hanno costruito una grande bugia per il popolo, noi il male loro il bene. Hanno affamato la nostra terra con questa bugia». 
Il finale del documento è retoricamente inappuntabile. Noi siciliani, e in quanto siciliani anche mafiosi, siamo le vittime della violenza di chi vuole cancellarci, ma non ci riusciranno: «Ogni volta che c’è un nuovo arresto si allarga l’albo degli uomini e donne (un mafioso del passato non avrebbe mai nominato le donne, ndr) che soffrono per questa terra, si entra a far parte di una comunità che mostra di non lasciar passare l’insulto, l’infamia, l’oppressione, la violenza». L’orgoglio sicilianista — è la conclusione — alla fine vincerà: «Questo siamo, e un giorno, ne sono convinto, tutto ciò ci sarà riconosciuto e la storia ci restituirà quello che ci hanno tolto in vita». 
Che dire? Il sicilianismo (la Sicilia come etnia separata e oppressa che va difesa) ha una tradizione, politica e letteraria, robusta. Pitré, ancor prima di Messina Denaro, non ha avuto problemi ad associare sicilianità (in senso positivo) e mafiosità. 
Cito: «La voce mafia coi suoi derivati valse e vale sempre bellezza, graziosità, perfezione, eccellenza nel suo genere. Una ragazza bellina, che apparisca a noi cosciente di esser tale, che sia ben assettata, e nell’insieme abbia un non so che di superiore e di elevato, ha della mafia, ed è mafiusa, mafiusedda. (…) All’idea di bellezza la voce mafia unisce quella di superiorità e di valentia nel miglior significato della parola e, discorrendo di uomo, qualche cosa di più: coscienza d’esser uomo, sicurtà d’animo e, in eccesso di questa, baldezza, ma non mai braveria in cattivo senso, non mai arroganza, non mai tracotanza». 
E ancora: «Il mafioso non è un ladro (…). La mafia è la coscienza del proprio essere, l’esagerato concetto della forza individuale (…); donde la insofferenza della superiorità e, peggio ancora, della prepotenza altrui. Il mafioso vuole essere rispettato e rispetta quasi sempre». 
Matteo Messina Denaro non è Riina. Non sottovalutiamolo. 


L’autore è professore emerito di Filosofia del linguaggio all’Università di Palermo 


La Repubblica Palermo, 5/3/2023

1 commento:

Alfonso Leto ha detto...

Caro prof. Lo Piparo, nel leggere di questa sua analisi linguistica dei pizzini, vi trovo molta [troppa] indulgenza di giudizio grammaticale e lessicale (-addirittura "eccellente"? - A me sono sembrati scritti più adattabili ad uno studentello medio, con la testa piena di chiacchiere e letture mal fatte, di poche ma confuse idee sulla storia e della storia-).
Il suo puntello etnologico -poi- chiesto in prestito a Pitrè, non capisco dove vuole parare: se per dirci che in Sicilia è da tempo radicato il pre-giudizio che "mafia è bello" (restituendo così in qualche modo l'attenuante "generica" al "pensiero" fissato nei pizzini), oppure vuol proporci una lettura in controluce tra la percezione del sé criminale, a confronto con una "correità" culturale che affonda le sue radici nel passato.
Dai pizzini di "Fragolone" spunterebbe persino una pretesa "libertaria" della mafia. È una vecchia storia: Vito Cascio Ferro [ex fasciante, il vero inventore del sistema-mafia] vantava una suddivisione di stampo "socialista" dei proventi di estorsioni, prostituzione, contrabbando, omicidi e rapine.
Ma Cascio Ferro pare fosse uomo cosciente dell'autoironia grottesca del paragone.
Messina Denaro ne sembra invece privo: è convinto di questa sua "ideale" e "persecutoria" visione. Egli crede di essere Mel Gibson in Braveheart al grido di "Libertà! Libertà! Libertà!" [non è specificato 'con danno di chi']. Di più non mi aspetterei.

Insomma, non saprei bene come interpretare questo suo testo.
Di sicuro,mi ha fatto venire in mente il dotto Pangloss nel Candido di Voltaire, il quale alle insistenti domande di Candido sul perché si stesse per affondare, rispondeva che a tutto c'era una spiegazione di causa-effetto e, se si stava stava affondando, un plausibile motivo c'era.