di LUIGI MANCONI
Non vuol dire essere più poveri
Possono esserci tante opportunità Quale visione di sé si trasmette e quale si vorrebbe trasmettere?
È in libreria una raccolta di racconti di autori ipovedenti e non vedenti Pubblichiamo l’introduzione al volume del sociologo affetto da cecità che spiega come la vista sia questione di sensibilità, intelligenza, cuore
Cosa vede chi non vede? Cosa vedono i ciechi e gli ipovedenti? Tantissime cose, perché la cecità, a differenza di quanto comunemente si creda, non impedisce di guardare — osservare, scrutare, analizzare — la realtà: innanzitutto quella del proprio corpo e della propria mente, ma anche quella degli altri. La percezione del corpo e della mente, infatti, non passa esclusivamente attraverso la visione, ovvero ciò che gli occhi registrano e rimandano, ma anche attraverso un sentire che non è semplicemente la somma di ciò che comunicano gli altri sensi.
Non voglio, con ciò, descrivere un paesaggio apocalittico dove gran parte della popolazione si ritrova in condizione di minorità o di invalidità. Mi limito a sottolineare come nelle società occidentali cresca costantemente la quota di individui che patiscono una qualche forma di handicap. E che questo inficia la categoria stessa di normalità rendendola qualcosa di mobile, discrezionale, soggettivo.
Gli a-normali, insomma, sono un’ampia minoranza presente in tutta l’organizzazione sociale. Il che dovrebbe favorire una sorta di “fierezza di minoranza” sulla quale costruire una strategia capace di valorizzare ogni risorsa e ogni opportunità, ogni energia e ogni chance, per quanto ridotte esse siano rispetto agli standard ufficiali. Ma non c’è bisogno di autoingannarsi per decidere che la visione di chi non vede, certamente meno gratificante di quella di chi vede, può essere una occasione di piacere e di libertà, di conoscenza e di crescita. Potrei dire: basta volerlo, anche se so che, nei fatti, non è così. Nei fatti la volontà conta, e moltissimo, ma le circostanze materiali e sociali hanno un peso assai consistente. È richiesto, di conseguenza, un grande lavoro. Ripeto: non virtù eroiche, bensìla tranquilla normalità di tanti a-normali, come le quattro persone non vedenti e ipovedenti che raccontano la propria vita in questo libro. Sono storie comuni di quotidiana e ordinaria fatica, ma anche di quotidiana e ordinaria felicità. In altre parole, la fatica e la felicità di trovare la normalità in una condizione di a-normalità.
Il sole è davvero importante per chi non vede. Sono ipovedente e, poi, cieco da circa quindici anni. E, dunque, l’immagine del sole — come rappresentazione fisica — mi è nota, notissima, sin da quando, bambino, lo riproducevo nei miei primi disegni: un prato erboso, una casa squadrata, un comignolo da cui esce un filo di fumo e, in alto, verso destra, una sfera color arancione. Via via, con il trascorrere degli anni, questa immagine l’ho sentita come superflua: quasi fosse, appunto, solo un reperto della memoria infantile. E il sole, tuttavia, mi è rimasto addosso — è il caso di dire — nella sua essenza. Come calore, capace di offrire una sensazione unica e ineguagliabile. Parlo, per capirci, del sole della primavera romana, ancora frizzante di una qualche corrente di aria fredda, ma nutriente e fortificante. Un sole tiepido che sembra voler scongelare tutto ciò che i mesi passati hanno irrigidito, e che ti raggiunge nei vicoli del centro storico della città e quando siedi ai tavolini all’aperto dei bar o nelle panchine dei parchi o sui bordi delle fontane. Un tepore morbido e rinfrancante, che assopisce e risveglia allo stesso tempo. È una sensazione davvero straordinaria, che per me rappresenta la solarità stessa come una categoria dello spirito, che l’esperienza fisica rende concreta, concretissima. È la stessa percezione che provo, nei mesi di marzo e aprile, sui bastioni di Alghero. Ecco, per me, il sole non è più quel disco arancione, ma è diventato un sentimento del corpo. La perdita della visione, in questo caso, forse effettivamente mi ha dato qualcosa di più.
D’altra parte, la domanda iniziale (cosa vede chi non vede?) ne suggerisce un’altra, speculare: cosa si vede di chi non vede? In altre parole, quale visione di sé trasmette il non vedente e quale desidererebbe trasmettere? Cosa mostra di sé e cosa nasconde? Il non vedente elabora una visione di sé e la trasmette come può. Con la scelta dell’abbigliamento ma anche dell’atteggiamento, con la postura, con gli occhiali da sole o quelli da vista, con gli occhi spalancati o con gli occhi chiusi. Con mille altri segni, messaggi e gesti. In tal modo, si realizza, si vuole realizzare, uno scambio di visioni con chi vede. È una dinamica molto importante perché contribuisce in maniera significativa a creare un sistema di relazioni non solo con chi osserva da lontano, ma anche con chi è prossimo e magari convive. Si arriva, così, al cuore del problema.
Il non vedente occupa degli spazi, interferisce con gli altri, urta, accarezza, stringe mani, accelera e rallenta, deve prendere le misure proprie e quelle degli altri, deve saper calibrare i movimenti e disporre i pesi. Deve occupare lo spazio giusto e non superare i confini convenuti. È un esercizio assai complesso. Questo richiede una grande conoscenza del proprio corpo e delle relazioni tra esso e i corpi degli altri. Non è facile: un movimento nonben calcolato può diventare un gesto aggressivo, una carezza può perdersi nel vuoto. È forse l’impresa più ardua, perché riguarda anche la sfera più intima della persona, laddove si manifesta la sua soggettività nella forma più profonda e delicata. Se il non vedente non saprà vedere il volto e il corpo della persona che ama, finirà col non amare la persona che ama. Ma questo vale — è il caso di dire: a ben vedere — anche per chi vede. Se sarete d’accordo su questo, converrete che vedere è più, assai più, del possedere una buona vista.
La Repubblica, 29/3/2023
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