L’assassinio del giudice Cesare Terranova |
Più di un anno prima del suo omicidio ci fu qualcuno che avviso i carabinieri che il giudice Cesare Terranova sarebbe stato ucciso. Quel qualcuno non era “uno qualsiasi”, era un boss di rango. Uno che la sapeva lunga e che non poteva essere ignorato come invece avvenne.
Era il 26 febbraio del 1978 quando il boss, la “tigre di Riesi”, Giuseppe Di Cristina, confidò ai carabinieri che il giudice Cesare Terranova sarebbe stato ucciso, che il suo omicidio era stato già decretato e che sarebbe stato compiuto dagli uomini di Luciano Liggio, scrive Asud'Europa, la rivista del Centro Pio La Torre. Tutto quello che Di Cristina aveva confidato si materializzò la mattina del 25 settembre del 1979. Quel giorno, verso le 8,30 il giudice andò verso il palazzo di Giustizia di Palermo. Era alla guida di una Fiat 131, accanto il maresciallo Lenin Mancuso. Il suo uomo di scorta che lo seguiva dal 1963.
L'auto imboccò una strada secondaria trovandola inaspettatamente chiusa da una transenna di lavori in corso. Il giudice Terranova non fece in tempo ad intuire il pericolo. In quell'istante da un angolo sbucarono alcuni killer che aprirono ripetutamente il fuoco con una carabina Winchester e delle pistole. Uomini ed auto furono crivellati di colpi. Cesare Terranova, istintivamente, ingranò la retromarcia nel disperato tentativo di sottrarsi a quella tempesta di piombo, mentre il maresciallo Mancuso, in un estremo tentativo di reazione impugnò la Beretta di ordinanza per cercare di sparare contro i sicari, ma entrambi furono raggiunti dai proiettili in varie parti del corpo.
Al giudice Terranova i killer riservarono anche il colpo di grazia, sparandogli a bruciapelo alla nuca.
La sua fedele guardia del corpo, Lenin Mancuso, morì dopo alcune ore di agonia in ospedale.
Cesare Terranova era nato a Petralia Sottana il 15 agosto del 1921. In magistratura entro subito dopo la seconda guerra mondiale, nel 1946. Nel 1958 cominciò a lavorare nell'ufficio istruzione del palazzo di Giustizia di Palermo. Fu lui che condusse le indagini contro la cosca di Corleone nei primi anni sessanta. Fu grazie alle sue indagini che Luciano Liggio (Leggio per l'anagrafe) venne condannato all'ergastolo per l'omicidio del vecchio capomafia di Corleone, Michele Navarra. Sentenza che venne emessa dai giudici di Bari il 23 dicembre del 1970. Liggio riuscì a sfuggire all'arresto per quattro anni. Venne poi ammanettato a Milano nel 1974. Una condanna che il boss di Corleone non perdonò a Terranova.
Un omicidio annunciato che probabilmente si poteva evitare. La signora Giaconia indicò in Liggio il mandante dell'omicidio del marito per l'odio che aveva nei confronti del magistrato che lo aveva indagato e indicato come capomafia e assassino. La vedova fece anche il nome del capitano dei carabinieri Alfio Pettinato, l'ufficiale che aveva raccolto le prima confidenze sulla volontà di Liggio di uccidere il marito.
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