di SALVO VITALE
Per le edizioni Navarra è uscito, da qualche mese, un libro dal titolo “Il grande abbaglio” e dal sottotitolo “Peppino Impastato e il PCI”. Ne è autore Elio Sanfilippo, storico dirigente del PCI palermitano e poi della Lega cooperative Sicilia, a partire dagli anni ’70. Lo ricordo in un comizio a Cinisi, il 9 maggio 1982, qualche settimana dopo l’omicidio di Pio La Torre, del quale era stato collaboratore, quando venne fuori la proposta, mai compiuta, di un’alleanza di tutte le forze democratiche nella lotta contro la mafia. Il libro affronta la spinosa vicenda dei rapporti tra Peppino Impastato e il PCI, ed è il primo vero momento di autocritica rispetto all’atteggiamento di questo partito nei confronti del gruppo di Peppino, prima e dopo il suo omicidio. Allora, cancellando un documento che avevamo scritto insieme, la sezione del PCI prese un atteggiamento di cauto distacco, non schierandosi sulla linea del delitto di mafia, ma chiedendo di indagare in tutte le direzioni e definendo Peppino non “il compagno”, ma “il giovane”.
Dalla sua ricostruzione sappiamo che fu Enzo Puleo del PCI di Cinisi ad avvisare Giuseppe Cammilleri, del PCI di Terrasini, il quale telefonò a Mimmo Carnevale, del PCI di Palermo, che avvisò Luigi Colaianni segretario regionale del PCI, il quale avrebbe detto: “Ne parliamo assieme alle altre cose che dobbiamo discutere”: la scarsa attenzione alla vicenda venne confermata e giustificata dalla notizia della morte di Aldo Moro, ma, davanti alla domanda “e per la vicenda di Cinisi che facciamo?” si decise di incaricare l’avvocato del PCI Nino Caleca, il quale telefonò al maresciallo di Cinisi, avendone come risposta che “la mafia non c’entrava” e che si trattava di attentato, o, dopo il ritrovamento della lettera, di suicidio. Caleca telefonò a Ugo Pecchioli, allora considerato “il ministro degli interni” del PCI, il quale consigliò “per il momento di non sposare alcuna tesi e di tenere in considerazione entrambe le ipotesi, ma di evitare assolutamente di polemizzare con i carabinieri”. Dalla ricostruzione sembra che sia stato Colaianni a venire a Cinisi, a bloccare il comunicato congiunto concordato per dar luogo, malgrado le urla di alcuni “compagni”, all’ambigua dichiarazione in cui si chiedeva “di indagare in tutte le direzioni” e quindi non solo per la pista del “delitto di mafia”. “La proposta, scrive Sanfilippo, venne respinta dalla maggioranza solo per disciplina di Partito, dopo il deciso invito dei dirigenti della federazione, nonostante tra le ipotesi, quella del delitto di mafia fosse la più convincente. Ma considerarla unica avrebbe aperto una polemica diretta con i carabinieri, cosa da evitare, memori del consiglio di Pecchioli” (pag. 13).
A pag. 14 del libro è riportato per intero un passaggio tratto dal mio libro “Cento passi ancora”, non citato, sulla reazione dei compagni di Peppino davanti al voltafaccia del PCI. Secondo quanto scrive Sanfilippo il PCI di allora era tanto ossessionato dalla scelta antiterrorista da ritenere poco opportuno e poco prudente (pag. 17) una convinta accettazione di un delitto di mafia, malgrado tale ambigua posizione venisse contestata anche all’interno del Partito. In quei giorni anche Colaianni, dopo aver sentito il questore di Palermo e il prof. Del Carpio ebbe occasione di rivedersi, grazie anche alla netta posizione dei sindacati, con i quali aveva condiviso un comunicato in cui si scriveva: “Nessun dubbio sulla tragica fine di Giuseppe Impastato… le indagini vanno indirizzate alla scoperta della vera matrice del delitto”, cioè, si presumeva, la mafia... Sempre distante “L’Unità”, dove Sergio Sergi scriveva: “Per ora questo piccolo paese rimane il teatro di un nuovo fosco giallo siciliano”. Nei giorni che precedettero le elezioni amministrative del 14 maggio Giancarlo Pajetta nel suo giro elettorale siciliano parlò della necessità di una unità nazionale contro il terrorismo senza neanche citare il delitto Impastato. Sanfilippo si sofferma poi a parlare della difficile posizione del PCI, accusato da destra di essere stato l’anticamera del terrorismo e dall’estrema sinistra, che contestava il compromesso storico, di essere subalterno alla D.C.: “In questo contesto la questione mafia non era ritenuta un’emergenza nazionale rispetto al terrorismo e considerata per lo più un fenomeno criminale circoscritto ad alcune regioni meridionali, Da qui la sottovalutazione del delitto Impastato, le ambiguità espresse e, alla fine, l’averlo relegato a un fatto locale”. (pag. 27).
Si parla poi di un incontro in parlamento tra Pio La Torre e un deputato di Partinico, Domenico Bacchi, quello che alcuni giorni prima della morte di Peppino era venuto a fare un comizio a Cinisi, scagliandosi soprattutto contro la lista di Democrazia Proletaria, composta da “quattro straccioni, figli di papà e falliti”: la reazione di Peppino fu violenta, sia in un comizio, sia alla Radio, dove mi trovai ad imitare il comizio di “Domenico Bacchi, in arte Mimì”, con la canzone tratta dalla Boheme, “Mi chiamano Mimì, ma il mio nome è Lucia…”. Bacchi, soltanto dopo molti anni dichiarerà di avere sbagliato, perché male informato dai “compagni” di Cinisi, ma in quel momento confermò a La Torre la posizione di Pecchioli e la possibilità che potevano avere ragione i carabinieri. La Torre venne a Cinisi, ascoltò i compagni, si convinse delle loro ragioni, ma durante il festival dell’Unità di fine giugno a Villa Giulia, in una conferenza dedicata allo stato della lotta contro la mafia, alla fine del suo intervento parlò di Peppino come “il giovane studente ucciso sulla linea ferroviaria..”. Anche nel congresso provinciale del PCI del marzo 1979 “l’intervento di un delegato che aveva ricordato l’assassinio di Impastato, chiamandolo però “il giovane Impastato”, suscitò l’ira di Giuseppe Cammilleri che con forza lo redarguì e rivolgendosi al congresso disse: “Basta con questo “giovane”.
Ci vogliamo decidere a chiamarlo compagno?”, riscuotendo un applauso prolungato dei delegati. (pag. 33). Stessa cosa per Emanuele Macaluso che il 25 aprile del 1979 venne a Cinisi, citò “l’assassinio del giovane Impastato” e “suscitò la protesta di Umberto Santino che dalla folla gridò: “E chiamalo compagno!!”. La risposta di Macaluso dal palco fu pronta e decisa: “Per questo non ho alcun problema: il compagno Impastato”. Una particolare importanza è data al primo convegno nazionale sulla mafia del 23 novembre 1979, organizzato da Luigi Colajanni, presenti La Torre, Rocco Chinnici e il numero due del PCI Alessandro Natta: è in quella occasione che il problema della lotta alla mafia venne promosso a problema nazionale e il nome di Peppino venne associato ad altri importanti martiri della mafia uccisi in quegli anni.
La seconda parte del libro è una sorta di biografia politica di Peppino: si cita la originaria frequenza nella sezione del PCI di Cinisi, guidata da Stefano Venuti, come documenta la foto di copertina, la sua adesione, nel 1965, al PSIUP, l’esperienza del giornalino “L’idea”, il circolo Che Guevara, l’adesione al filocinese PCdI e soprattutto le iniziative e i contrasti con il PCI nella lotta dei contadini di Punta Raisi contro la costruzione della terza pista. Il racconto di Benito Caputo, nel 1968 presidente dell’Alleanza Coltivatori, presenta qualche incongruenza: non mi risulta che le posizioni di Franco Maniaci fossero uguali a quelle di Peppino né posso confermare che “si decise di contrastare il respingimento della polizia piazzando davanti alle ruspe alcune donne incinte mettendo in serio imbarazzo gli agenti” (pag. 41). Davanti alle ruspe c’ero io con altri contadini e con Peppino, e nessuno di noi avrebbe messo a rischio l’incolumità della sola donna incinta presente. Inoltre solo Franco Maniaci venne arrestato e portato alla caserma di Carini, per aver dato del bastardo a un carabiniere che stava portando via Larenzu u Spirdatu. Processato, si beccò sette mesi. Peppino rimase con noi.
Un’altra imperfezione sta nell’adesione di Peppino a Lotta Continua: a pag. 42 Sanfilippo sostiene che nel ’72 egli aderì al Manifesto, a seguito della campagna per Valpreda, e successivamente entrò in Lotta Continua, ma a pag. 44 dice che nel 72 era in Lotta Continua, allorchè contestò violentemente l’entrata in giunta del PCI con l’elezione di Franco Maniaci vicesindaco: anche qua un’altra contraddizione: “I dirigenti di Palermo chiesero quale fosse stata la posizione assunta da Impastato e la risposta fu, senza nascondere un certo disappunto misto ad amarezza, che lo avevano incontrato prima di procedere all’operazione politica e che questi, non che l’avesse condivisa, ma non aveva espresso una posizione di pregiudiziale contrarietà e ostilità” (pag. 45). Difficile credere alla domanda, da parte dei dirigenti di Palermo sulla posizione di Impastato, dal momento che, secondo me ne ignoravano l’esistenza, o la ritenevano irrilevante: l’incontro lascerebbe intendere un voltafaccia politico di Peppino, al quale nessuno può contestare correttezza e coerenza. Seguono le ambigue, se non complici posizioni del PCI, duramente contestate da Peppino, riguardo l’approvazione del progetto del Villaggio Turistico Zeta dieci (sei miliardi nelle mani di quattro imprenditori, uno dei quali era Pino Lipari, poi amministratore dei beni di Bernardo Provenzano), e la licenza per la costruzione del “Palazzo di Percialino”, cioè un palazzo di sette piani in una zona con vincolo aeroportuale, concessa a Giuseppe Finazzo, prestanome, o, come diceva Peppino, “strascinaquacina” di Badalamenti.
Molto interessanti le note che riguardano Leonardo Pandolfo, sindaco ai tempi dell’esproprio delle terre di Punta Raisi, espressione del PSDI, che tolse il potere alla DC per un certo periodo, poi diventato, nel 1976, deputato nazionale, sottosegretario alla Pubblica istruzione, riemerso, dopo lunga assenza nel 1992 ed eletto come deputato regionale nel partito Liberale. La sua amicizia con Gaetano Badalamenti e con altri mafiosi di Cinisi si può rilevare da due foto, pubblicate dallo scrivente nella sua biografia su Peppino, in cui Pandolfo è ritratto con Sarino Badalamenti, Cesare Manzella, Luigi Impastato, Tommaso Impastato e lo stesso Gaetano Badalamenti. I compagni del PCI sostenevano che a Cinisi la mafia si annidava nel PSDI, per giustificare la loro entrata in giunta con la DC, ma Peppino scriveva sui muri: “DC + PCI= Mafia”, “Via la giunta dei trafficanti d’eroina. La sinistra si assuma le sue responsabilità”. In quella occasione il PCI scrisse un comunicato in cui si condannava “l’azione provocatoria dei mandanti e degli esecutori di tali scritte, tipica di forze reazionarie…”, ritenendo che “con tale iniziativa, elementi interessati e vili, adusi ad agire coperti nell’ombra della notte, come sciacalli, vogliono far degenerare il quadro politico a Cinisi” (cfr. Salvo Vitale, “Peppino Impastato, una vita contro la mafia, 2016, pag.76. Cito il libro nel quale il documento è riportato, perché nel libro di cui ci occupiamo non è indicata la fonte. Nel citato libro si può anche leggere un articolo di Peppino Impastato “Sulla partecipazione del PCI alla giunta comunale di Cinisi”). Ma, per tornare a Pandolfo, il dato più rilevante è che, malgrado il suo consenso elettorale, nelle elezioni amministrative del 1978 a Cinisi non presentò la lista del suo partito, dando via libera alla D.C. che raggiunse il 49%. E’ condivisibile l’affermazione di Sanfilippo: “E’ molto probabile che avesse subodorato qualcosa sul clima pesante che già si respirava a Cinisi, dove era scoppiata una feroce faida mafiosa che aveva già provocato diciannove morti. Aveva ritenuto così di ecclissarsi”. L’assenza di Pandolfo lascia spazio a molte illazioni e fu al centro di alcune “Onda Pazza” trasmesse nell’ultimo mese di vita di Peppino. Sui 19 morti, cifra che non sono in grado di confermare, forse l’autore si riferisce alla guerra tra i Greco e La Barbera nella quale perse la vita Cesare Manzella, ma realtà la vera guerra mafiosa scoppierà a Cinisi nel biennio 1981-83, non come faida interna, ma come scontro tra corleonesi e badalamentiani e lascerà sul campo oltre trenta morti. Sulla carriera criminale di Badalamenti, ai vertici di Cosa Nostra sino al 1978 e sul suo successivo declino, sino all’arresto a Madrid, Sanfilippo scrive che il boss venne “posato” nell’ottobre 1978, mentre Buscetta parla dei primi mesi del ‘78 e Falcone del dicembre ’78. La data ha una sua importanza, perché se ha ragione Buscetta, la cosca di Cinisi in quel momento era retta da Nino Badalamenti, al quale dovrebbe risalire la responsabilità dell’omicidio di Peppino. Altrettanto interessante questa nota: “Le denunce di Peppino erano diventate troppo pericolose, anche perché la mafia non ama essere chiamata per nome e sbeffeggiata. Per Badalamenti il dileggio di cui era oggetto era diventato ormai insopportabile, per di più nel momento in cui subiva l’azione di delegittimazione da parte di Riina, come se non riuscisse a farsi rispettare nemmeno in casa propria” (pag. 57).
Nelle ultime pagine si parla dell’omicidio di due carabinieri, avvenuto ad Alcamo Marina, nel 1976, per il quale venne perquisita la casa di Peppino nel corso di indagini coordinate dal capitano Subranni e dal colonnello Russo, tese a dimostrare che si trattava di un gesto terroristico. Una nota è riservata anche allo strano suicidio del maresciallo di Terrasini Antonio Lombardo. Recentemente sembra si voglia inserire l’omicidio di Impastato in un gioco più grosso relativo a un traffico di armi destinate all’organizzazione Gladio. Lo ha fatto Francesco Viviano in un articolo citato dall’autore, su La Repubblica del 14 febbraio 2012 e più recentemente anche il giornale “Il Riformista” in due articoli di Nicola Biondo pubblicati in data 8 e 27 gennaio 2023. A mio parere non c’entra niente.
Il libro di Sanfilippo offre un ulteriore tassello nella ricostruzione del decennio 68-78 in cui si svolse l’attività politica di Peppino riferisce, con onestà e correttezza gli errori politici di valutazione dell’omicidio di Peppino, da parte del PCI, i contrasti e i rari momenti di collaborazione, il più importante dei quali non è riportato, ovvero quello riguardante la questione degli edili, che vide Peppino impegnato, nel 1974, per qualche tempo, nella Fillea-CGIL. Il distacco definitivo di Peppino dal PCI, nel quale comunque non era mai stato, avvenne intorno al ’67-68, quando si accusava il PCI di “revisionismo”, ovvero di avere scelto il riformismo e le elezioni rispetto all’ortodossia marxista rivoluzionaria. La distanza, con il passar degli anni divenne abissale, specie dopo la scelta del “compromesso storico”. A Cinisi tale distanza di posizioni era ancor più acuita dalla partecipazione del PCI nelle giunte a guida democristiana con scelte politiche spesso funzionali alle speculazioni mafiose sul territorio. Non si pensi che il PCI tentasse accordi e che Peppino li rifiutasse: non ci fu mai nessun accordo e non è il caso di citare i feroci giudizi e gli epiteti che “i compagni” di Cinisi davano a Peppino. Il che rientra nelle scelte politiche tipiche dei gruppi che stavano a sinistra del PCI in una stagione in cui la stabilità della democrazia era minacciata dalle strategie stragiste dell’estrema destra e dalle pretese di lotta armata da parte di qualche gruppo della galassia dell’estrema sinistra. In questo contesto vanno letti l’omicidio di Moro e quello di Peppino, il 9 maggio 1978.
AntimafiaDuemila, 4/2/2023
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