Gian Giacomo Ciaccio Montalto |
Il silenzio della città ricca di banche e l’imbarazzo per la provocazione dell’intestazione di una strada. Era meglio affibbiare a Palermo il totem della criminalità organizzata e della resistenza civile. Il centro Scontrino con la loggia massonica Iside due, gli sportelli bancari pieni di soldi sporchi, la borghesia mafiosa
di Giacomo Pilati
Non c’era stato nessun effetto Dalla Chiesa. Nessun brivido aveva percorso le strade annoiate della città. Tutto scorreva come prima. Un fiume lento, come quelli di certi parchi acquatici. Nessuna primavera aveva segnato il cammino di una comunità distratta, impermeabile alle emozioni. La strage di via Carini a Palermo e prima l’omicidio di Pio La Torre, avevano indignato solo alcune parti politiche, i comunisti e pochi altri. Per il resto il solito cordoglio di occasione. Con la presunzione assolutoria che queste cose a Trapani non succedono.
Perché Trapani è la città della gioia.
Perché a Trapani la mafia non esiste; semmai è la solita invenzione dei giornalisti del nord. Con la manina di qualche giudice in cerca di pubblicità. Ecco, appunto.
Giangiacomo Ciaccio Montalto agli occhi di tanti era uno di questi.
Colpevole di avere rotto il quieto vivere di una magistratura più attenta ai reati comuni che alle commistioni fra potere politico e mafia. Ed era meglio affibbiare a Palermo il totem della criminalità organizzata e della resistenza civile piuttosto che mettere in mezzo un paese pacifico, accarezzato da sportelli bancari che nemmeno a Lugano, e posti pubblici a chilometro zero. Il prezzo da pagare all’indifferenza. Guardare dall’altra parte, non parlare al conducente, come nelle targhette sugli autobus.
E prima di Ciaccio Montalto c’era stato il commissario Giuseppe Peri che, solo alcuni mesi prima, era morto di crepacuore in un ufficio della questura di Palermo, escluso da ogni incarico. Il suo crimine, avere firmato nel 1978 ad Alcamo un rapporto di polizia in cui per la prima volta si esploravano i legami fra cosche, massoneria, eversione nera, sequestri di persona, stragi, e servizi segreti deviati. Una follia, respinta da ben sette procure della Repubblica. Perché la pubblicità fatta male non serve a nessuno, anzi nuoce gravemente alla salute della politica. E sullo sfondo ancora la città della gioia. Una radiografia della mafia trapanese che a rileggerla oggi mozza il fiato.
E proprio in quei giorni, Nicola Badalucco, un altro pazzo scaraventato fuori dalla centrifuga della città, aveva finito di scrivere la sceneggiatura della Piovra, la fiction per la televisione che nel 1984 ha raccontato con un linguaggio nuovo Trapani e le sue alleanze occulte. Con Giangiacomo Ciaccio Montalto e Boris Giuliano, consulenti di lusso; suggeritori di una storia che da lì a poco avrebbe spalancato le porte alla cronaca: il centro Scontrino con loggia massonica coperta Iside due, gli sportelli bancari pieni di soldi sporchi, i giudici in manette, la borghesia mafiosa, le complicità inconfessabili. Un terribile gioco dell’oca. Con i dadi fermi sulla casella del 25 gennaio 1983, il giorno incui il giudice che aveva capito la mafia è stato ucciso davanti alla sua casa di Valderice. La marcia dell’auto ingranata, lo sportello aperto, il thermos col caffè ancora caldo, 23 bossoli a terra, l’orologio fermo all’1,12.
Dopo i primi momenti di commozione istituzionale, tutto è tornato come prima. IlCorriere dello sport al mattino, il jogging sul lungomare, la cioccolata calda il pomeriggio al Tea Room, i dolci la domenica, la passeggiata in via Torrearsa. Era stato il caso. Punto. Il destino si era preso gioco di una tranquilla città di provincia.
«E poi chi lo ha detto che è stata la mafia. È ancora tutto da dimostrare… ». Così insinuavano i guardiani della fede, quelli della “ mafia nonesiste”. Anche per loro è nato il coordinamento antimafia. Sindacalisti, insegnanti, camerieri, muratori, studenti, pensionati. Gente così, messa assieme dal passaparola per non disperdere le energie rimaste accese.
Erano trascorsi quasi due anni, l’oblio aveva inghiottito pure gli ultimi residui di memoria. Bisognava fare qualcosa, e in fretta. Al Comune non volevano sentire ragioni di intitolargli una strada. In consiglio comunale facevano finta che non era successo nulla. Che era meglio dimenticare e tornare a vivere nell’eden. Con l’aiuto dell’onorevole che è tanto buono con tutti e non abbandona i suoi figli al discredito popolare.
E allora ci voleva una provocazione. Una colletta di spiccioli. Un marmista e un muratore. In un paio di giorni la targa era pronta. Il 25 gennaio 1985 era inchiodata sul muro della casa del magistrato di fronte al Palazzo di Giustizia di Trapani. Le autorità ci sono rimaste male quando il lenzuolo è stato tirato giù e sul marmo c’era scritto “Corso Giangiacomo Ciaccio Montalto, vittima della mafia”. Un silenzio imbarazzante. Si aspettavano la solita commemorazione, la corona di fiori, il discorso, l’applauso. Alla fine della cerimonia un carabiniere si è avvicinato per invitarmi il giorno dopo in caserma perché il suo capo voleva parlarmi. E io ci sono andato fiero di avere dato un piccolo contributo al ricordo di un eroe. E invece voleva sapere da me i nomi di quelli che avevano messo la targa, perché era un reato e andava perseguito. E io, che non capivo cosa stava succedendo, continuavo a ripetere che era una decisione unanime del coordinamento antimafia ed eravamo orgogliosi di questo. E lui a ripetermi che la lotta alla mafia la fanno le forze dell’ordine « … e poi nei movimenti antimafia si cela il pericolo di una deriva estremista, e allora è meglio stare attenti».
Ha detto proprio così. E non sapevo cosa rispondere. Perché a venti anni le cose si comprendono meglio a mente fredda.
Due giorni dopo la targa è stata rimossa. E pure le nostre speranze. E nella città della gioia è tornato di nuovo il sorriso.
La Repubblica Palermo, 24/1/2023
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