ATTILIO BOLZONI
È misteriosa anche nella sua forma, protesa verso il mare come se dentro il mare volesse sprofondare. È lontana dalle superbie di Palermo capitale, è silenziosa, cupa nel suo essere indecifrabile.
Per capire e scoprire la mafia nelle sue evoluzioni e nei suoi perfezionamenti bisogna tornare sempre lì, a Trapani. E nella sua provincia, da Castellammare fin giù in fondo alla Valle del Belice sino a Castelvetrano, a Mazara, a Campobello, a Marsala. È terra di logge, segrete e segretissime, non c'è inchiesta di un certo spessore che non abbia incontrato collegamenti con qualche "obbedienza", consorterie che comandano e comandavano con o senza Matteo Messina Denaro.
Perché in realtà lui è stato solo l'ultima personalità, se così possiamo definirla, cresciuta in una striscia di Sicilia che fa nascere capi o comunque pezzi da novanta del crimine da almeno un secolo.
Cent'anni fa c'erano i "castellameresi" che sbarcarono in America e conquistarono New York con le loro cinque grandi famiglie, poco più di cinquant'anni fa tutti credevano il capo dei capi di Cosa nostra fosse Giuseppe Genco Russo di Mussomeli ma il pentito Nino Calderone confidò al giudice Falcone che «era invece un certo Fazio, un trapanese».
Trapani e i suoi morti
La politica decennio dopo decennio li ha sempre sostenuti, uno per uno fra forzieri stracolmi di denaro e prelati malandrini, poliziotti e prefetti mandati in esilio, postazioni clandestine di intelligence e fantasmi di nome Matteo.
Palermo celebra ossessivamente i suoi caduti, Trapani dimentica i suoi morti e li nasconde come fa con sé stessa. Chi se lo ricorda più Giangiacomo Ciaccio Montalto , sostituto procuratore della repubblica di Trapani assassinato esattamente quarant'anni fa, alle ore 1:12 del 25 gennaio 1983?
Era da solo a indagare sui Minore e gli Agate e su Francesco Messina Denaro che era il padre di Matteo, sugli scandali al comune, sui traffici di droga degli Zizzo di Salemi, era stato il primo ad applicare la legge La Torre-Rognoni a Trapani.
Almeno tre sicari lo aspettarono sui tornanti che salgono a Valderice. Una mitraglietta Luger, una Smith & Wesson calibro 38, un'automatica 7,65. Aveva quarantadue anni.
«Ciaccinu arrivau a stazione».
Ciaccio è arrivato in stazione, al capolinea, ha finito la sua corsa, sibilò il boss Mariano Agate, attraversando i corridoi sui quali si aprivano le celle del carcere San Giuliano di Trapani.
Il giorno dopo il delitto il maestro elementare Erasmo Garuccio, sindaco di Trapani, diventò famoso in tutta Italia per la celebre frase che non riuscì a trattenere: «La mafia non esiste». Altrettanto celebre la vignetta di Forattini sulla prima pagina di Repubblica: il sindaco con la fascia tricolore e un fucile a canne mozze infilato nel didietro.
Sindaco del controspionaggio
Cosa è cambiato in questi quarant'anni a Trapani e nella sua provincia? Tanto e niente. Durante la lunghissima scomparsa di Matteo il capoluogo ha avuto come sindaco anche un generale di brigata in pensione.
Nella città dei segreti è stato eletto un ufficiale dei servizi segreti. Dal 2012 al 2017 – dall'anno diciannovesimo al ventiquattresimo della latitanza del boss di Castelvetrano – primo cittadino Vito Damiano, carabiniere, ex capo di uno dei reparti del controspionaggio del Sismi . L'uomo giusto al posto giusto.
Alla sua prima uscita, commemorazione della strage di Capaci, il sindaco che sognava «di trasformare la Sicilia nella Florida d'Europa» si è presentato così: «Di mafia non bisogna parlarne perché si rischia di darle troppa importanza».
Da Erasmo Garuccio a Vito Damiano, un linguaggio diverso solo all'apparenza, nella sostanza lo stesso vocabolario.
Intanto non faceva parlare di sé neanche Matteo Messina Denaro che, pressappoco in quella stagione, aveva preso in mano nel trapanese l'affare miliardario dell'eolico ed era diventato – questo sì, sicuramente – il capo dei capi della grande distribuzione alimentare.
Matteo come alibi
Matteo Messina Denaro c'era e non c'era. C'era quando serviva, non c'era quando non serviva. Un alibi perfetto. Per gruppi imprenditoriali che nel frattempo ingrassavano con i loro amici alla regione siciliana, con una burocrazia rapace, con tutti quei "gran maestri" che occupavano le alte sfere in ogni amministrazione della città.
C'era una piccola P2 tutta trapanese che era "il circolo Scontrino" quando Matteo aveva vent'anni, c'erano e ci sono ancora diciannove logge (sei solo nella Castelvetrano dei Messina Denaro) presenti nella provincia trapanese.
Tutti coloro i quali hanno provato a curiosare lì dentro sono finiti male. E tra questi quattro capi della squadra mobile di Trapani. Il primo era Giuseppe Peri, ormai nel lontanissimi anni Settanta. Cacciato dai reparti operativi e retrocesso all'ufficio passaporti.
Poi è arrivato il turno di Ninni Cassarà, trasferito a Palermo perché troppo ficcanaso, da dirigente della sezione investigativa della squadra mobile è stato il braccio destro di Giovanni Falcone fino a quando i killer di Cosa Nostra l'hanno ucciso a colpi di kalashnikov nell'agosto del 1985. A sostituire Ninni Cassarà venne Saverio Montalbano, un altro poliziotto che mostrò troppa curiosità per il "circolo Scontrino".
Qualche giorno dopo una perquisizione nei locali della loggia (negli elenchi funzionari della questura e della prefettura, il capomafia di Mazara del Vallo Mariano Agate, il boss Gioacchino Calabrò coinvolto nella strage di Pizzolungo contro il il giudice Palermo), Montalbano fu rimosso. Qualcuno s'inventò che aveva usato l'auto di servizio per fare la spesa: anche lui trasferito a Palermo. E poi ancora la vicenda di Rino Germanà, capo della squadra mobile di Trapani, proveniente dal commissariato di Mazara e rispedito al commissariato di Mazara dalla sera alla mattina e senza spiegazioni. Degradato sul campo. E isolato. Dopo la punizione inferta dal Viminale, Matteo Messina Denaro, Leoluca Bagarella e Giuseppe Graviano tentarono di ucciderlo. Il commissario si salvò buttandosi a mare. Sarebbe interessante oggi, anche per individuare i complici che hanno assicurato i trent'anni di latitanza a Matteo e altri boss trapanesi, scoprire chi al ministero degli Interni ha fatto fuori come birilli i quattro commissari di polizia. Decisioni prese dentro? Pressioni recapitate dall'esterno? Le carte saranno ben conservate negli archivi e, se solo qualcuno volesse, potremmo capirne un po' di più sulla Trapani occulta anche dei giorni nostri.
La tessera numero 1
Tra i suoi figli più illustri la città ha avuto il senatore Antonino D'Alì, uno dei fondatori di Forza Italia, tessera numero uno nella provincia trapanese del partito di Berlusconi, uno che con Matteo Messina Denaro ha mantenuto e per lungo tempo una certa vicinanza.
Ecco la Trapani di oggi, un sottosegretario all'Interno considerato favoreggiatore dell'imprendibile boss e che finisce in carcere appena un mese prima della cattura di Matteo. Ed ecco ancora la Trapani di ieri, l'uccisione del sostituto procuratore Giangiacomo Ciaccio Montalto e un paio di mesi dopo l'arresto di Antonino Costa, il collega della stanza accanto.
Una vicenda di corruzione che poi in Cassazione è sfumata. Passaggi di soldi, intrecci societari, promiscuità finite anche davanti al Consiglio superiore della magistratura. Con il magistrato Costa nella tempesta, sua moglie socia di Vincenzo Bongiorno, rispettabile imprenditore prima, latitante poi, e poi ancora assassinato in un regolamento di conti. Passato e presente che si inseguono. Il figlio dell'imprenditore Bongiorno, Gregory, è morto qualche giorno fa per un infarto. Era uno dei fedelissimi della Confindustria di Calogero Antonio Montante, uno dei «cortigiani della sua corte dei miracoli», per riprendere il testo dell'informativa di polizia sul sistema Montante. Dimenticando l'ultima pagina nera della Sicilia con lo strapotere del padrino dell'antimafia, l'Avvenire gli ha dedicato ieri un santino in prima pagina.
Trapani e la sua provincia raccolgono primati su primati. Il più grosso imprenditore della Sicilia è nel cuore della città, in tribunale: è il presidente delle speciale sezione delle Misure di prevenzione.
Amministra un patrimonio immenso. Un miliardo e 600 milioni di euro confiscati al boss Vincenzo Virga, un miliardo e 300 milioni confiscati del "re del vento" Vito Nicastri, 800 milioni al ras dei supermercati Giuseppe Grigoli. Quattro i miliardi valutati, e per difetto, ai prestanome di Matteo Messina Denaro. E non è proprio un caso che le strade le piazze di Trapani, e non di Palermo, siano state scelte come set della prima Piovra televisiva del regista Damiano Damiani, il commissario Cattani interpretato da Michele Placido che in solitudine andava in guerra contro una città intera.
Attilio Bolzoni
domani, 25/1/2023
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