Biagio Conte
di GIUSEPPE SAVAGNONE
Responsabile del sito della Pastorale della Cultura dell'Arcidiocesi di Palermo, www.tuttavia.eu. Scrittore ed Editorialista
Un personaggio che non apparteneva alla “casta”
La morte di Biagio Conte, a soli 59 anni, ha avuto una risonanza che va ben oltre la cerchia dei suoi collaboratori e sostenitori. La notizia è stata ripresa dai giornali nazionali che hanno parlato di lui, dando ampio spazio alla ricostruzione della sua storia. Il sindaco di Palermo, Roberto Lagalla ha emanato un’ordinanza con cui ha indetto il lutto cittadino e le bandiere a mezz’asta. E il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, lo ha ricordato come «punto di riferimento, non soltanto a Palermo, per chi crede nei valori della solidarietà e della dignità della persona, che ha testimoniato concretamente, in maniera coinvolgente ed eroica».
Un’eco così ampia non era scontata. In questa società dell’immagine, del prestigio sociale e del potere economico e politico, Biagio Conte non vantava nessuno di questi titoli. Non era un “influencer”, non aveva nessuna carica, neppure ecclesiastica, non faceva parte della “casta”. Da quando ha fatto le sue scelte di vita, ha voluto solo esser “fratel Biagio”, un poveraccio col saio e un bastone, che ha girato a piedi per l’Italia e per l’Europa, spesso dormendo all’addiaccio, mangiando quello che per carità gli offrivano, senza fare discorsi memorabili, semplicemente vivendo la sua povertà come una testimonianza per un mondo ricco, che non vuole rinunziare a nulla e non intende condividere con i bisognosi quello che ha.
La «Missione di Speranza e Carità»
I giornali hanno parlato di lui come di un uomo che ha speso tutta la sua vita a favore degli ultimi. Ed è vero. A Palermo aveva creato la «Missione di Speranza e Carità», dove accoglieva incondizionatamente poveri, senzatetto, migranti, ex tossici, emarginati. Il progetto, nel corso degli anni, si è allargato con la costruzione, accanto alla «Missione di Speranza e Carità», di altre realtà: «Città della gioia», «La Cittadella del povero e della speranza» e «La Casa di Accoglienza femminile». Oggi le diverse sedi accolgono oltre mille persone a cui sono offerti tre pasti al giorno, assistenza medica e, all’occorrenza, vestiti puliti. Chiunque bussa alla porta riceve ascolto e aiuto da una rete di volontari che si è creata intorno al fondatore.
Ma tutto questo non va scambiato per una semplice opera assistenziale. Sarebbe, ancora una volta, ridurre Biagio Conte alle nostre categorie efficentiste. E non renderebbe ragione di altri aspetti fondamentali della sua figura, che non era certo quella del manager – si può essere tali anche facendo assistenza – , ma si radicava in una vocazione squisitamente spirituale per la povertà, pressoché incomprensibile in un mondo dominato dalla logica del benessere e del consumismo.
Una scelta di povertà
In questo senso davvero la storia di “fratel Biagio” ha delle analogie con quella di Francesco d’Assisi. Come Francesco, anche lui proveniva da una ricca famiglia – non di mercanti, ma di costruttori edili – , che lo aveva spedito a studiare in Svizzera, presso un collegio privato. Poi era tornato a Palermo, per continuare gli studi sempre in una scuola privata, ma aveva lasciato gli studi a 16 anni, iniziando precocemente a lavorare nell’impresa della sua famiglia.
Era ricco ma insoddisfatto. «Mi stordivo con auto di lusso, griffe, belle ragazze e vestivo solo di grigio o di nero, la mia vita non aveva colori», racconterà. Aveva cercato di sfogare la sua inquietudine puntando sull’arte. A 20 anni, decise di andare a vivere a Firenze inseguendo il sogno di diventare pittore o scultore.
Gli ci vollero sette anni per capire che neanche questo poteva riempire il vuoto che sentiva dentro. Fin quando non scoprì che a colmarlo poteva essere solo Cristo. Da qui, la scelta radicale di spogliarsi di tutti i suoi averi, lasciare i genitori e le due sorelle minori, per abbracciare la vita da eremita nelle montagne dell’entroterra siciliano e successivamente facendo un viaggio interamente a piedi verso la città di Assisi.
Nell’estate del 1991 ritornò a Palermo con l’idea di partire in missione in Africa ma, camminando per le vie della città, rimase colpito del profondo disagio sociale e dello stato di povertà di migliaia di suoi concittadini. Così decise di rimanere in Sicilia, per fare della sua scelta di povertà un dono a chi era povero senza averlo scelto.
Ma il senso ultimo non è mai stato, come nelle analoghe istituzioni di “servizio sociale”, quello della pura e semplice integrazione dei bisognosi e degli emarginati nella società del benessere, bensì innanzitutto la testimonianza della condivisione e della fraternità. Non un rifiuto dello spirito della povertà, ma la consapevolezza che solo quando essa non è un destino che ci schiaccia essa può essere valorizzata nel suo autentico significato di libertà interiore dalle cose.
Un rivoluzionario nei confronti della società e della Chiesa
È questa visione, drasticamente alternativa, che rende Biagio Conte un autentico rivoluzionario. Una rivoluzione spirituale, da cui però non è assente una dimensione politica. Che ha avuto le sue manifestazioni già nelle battaglie sostenute dal fondatore della «Missione di Speranza e Carità» per vincere la sordità e l’indifferenza delle istituzioni, anche a costo di prolungati scioperi della fame e proteste eclatanti. Ma soprattutto nell’additare un modello alternativo di società, dove i volti delle persone contino più del Prodotto Interno Lordo e dove la logica della solidarietà prevalga su quella della concorrenza. La rivoluzione di Biagio Conte comincia dall’anima e dai rapporti tra le persone.
È una testimonianza su cui anche la Chiesa farebbe bene a interrogarsi. In un tempo in cui le chiese restano mezze vuote e si percepisce sempre di più l’irrilevanza della pastorale ordinaria nella formazione delle coscienze, Biagio Conte ha cercato di restituire attualità al messaggio cristiano con un forte richiamo al Vangelo, uscendo dai logori quadri di un ritualismo sempre più abitudinario e mostrando che cosa può significare realmente, per un credente, la scelta di Dio di venire a condividere la vicenda degli uomini.
Di fronte a una struttura ecclesiastica che scricchiola sempre più vistosamente, i cristiani sono chiamati a reinterpretare in modo creativo le modalità della loro presenza nella società. L’esperienza di Biagio Conte può essere per questo una risorsa significativa. Lo ha sottolineato l’arcivescovo di Palermo, mons. Corrado Lorefice, quando è andato al capezzale dell’infermo pochi giorni prima della sua morte: «Siamo qui perché Biagio è colui che diventa la nostra stella, perché ci conduce all’essenziale e l’essenziale è questa via “altra” che dobbiamo imboccare».
Non si tratta di imitare lo spogliamento di tutti i beni in cui si è concretizzata la scelta di “fratel Biagio”, come non si è mai trattato di imitare le forme esteriori della vita di s. Francesco. Ma ci sono dei cambiamenti di stile che sono diventati sempre più urgenti. Innanzi tutto per la Chiesa istituzionale: l’immagine del Vaticano, con le sue strutture burocratiche, i suoi intrighi, i suoi non sempre limpidi interessi economici, diventa sempre di più un ostacolo per la scelta di fede di molti, che ne restano scandalizzati.
È chiaro che una grande comunità com’è quella ecclesiale non può fare a meno di un’organizzazione. Anche al tempo di Francesco d’Assisi la Chiesa ha sempre avuto il compito di conciliare la sua anima carismatica e profetica con quella istituzionale. Ma è sicuramente uno dei “segni dei tempi” di cui parlava il Concilio l’esigenza di ripensare questo equilibrio dando più ascolto alle voci, come quella di Biagio Conte, che la richiamano all’originaria esperienza evangelica.
Sarebbe però un troppo facile alibi, per i credenti, scaricare tutto il problema sulle strutture ecclesiastiche. Urge una forte ripresa spirituale che restituisca ai cristiani – a cominciare dai laici e dalle laiche – il senso alternativo della loro vocazione e li renda consapevoli della loro missione “rivoluzionaria”. L’irrilevanza del Vangelo nella nostra società non dipende certo soltanto dai vescovi e dai preti, ma dalla schizofrenia di tanti che si dicono cristiani ma pensano e operano ispirandosi a modelli culturali incompatibili con questo nome. La coerenza dei testimoni, nella sua radicalità, è un richiamo fortissimo a prenderne coscienza.
Nell’ora della sua morte, Biagio Conte acquista più che mai il valore di un simbolo di tutto questo. Senza altra pretesa che quella di essere un “povero fratello” di tutti i poveri, egli ci indica una strada, difficile perché diversa da quelle a cui siamo abituati, ma che forse può aiutare anche noi – come aiutò lui – a colmare un vuoto a cui siamo troppo abituati.
tuttavia.eu, 13 gennaio 2023
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