di Giuseppe Savagnone
Responsabile del sito della Pastorale della Cultura dell'Arcidiocesi di Palermo, www.tuttavia.eu.
Scrittore ed Editorialista
Scenari ben poco natalizi
Gli addobbi e le luci delle nostre città parlano già del Natale ormai imminente. Eppure, una rapida scorsa dei giornali offre scenari che contraddicono nel modo più stridente il clima natalizio: l’assurda guerra in Ucraina, con le migliaia di ragazzi morti dall’una e dall’altra parte, i massacri e le torture, le devastazioni; la corruzione all’interno del palazzo che dovrebbe rappresentare il cuore dell’Europa, quell’europarlamento la cui vicepresidente è stata sorpresa mentre teneva a casa settecento cinquantamila euro, frutto di corruzione; la crisi energetica che ci minaccia tutti, ma che, come al solito, sarà sofferta soprattutto dai più poveri; i cambiamenti climatici, che annunziano purtroppo un deterioramento del nostro ambiente naturale, causato dal riscaldamento globale; la ripresa minacciosa, anche se ancora sotto controllo, dell’epidemia di covid.
Ma ci sono anche i tanti episodi, piccoli e meno piccoli che ogni giorno ci ricordano la gravità della profonda crisi morale che sembra attraversare tutto l’Occidente e da cui l’Italia è ormai investita anch’essa in pieno.
Per citarne solo uno, assolutamente marginale, ma tristemente significativo, colpisce che un ex premier – protagonista di più di un ventennio della nostra storia nazionale e attualmente leader di uno dei tre partiti della coalizione di governo, oltre che senatore – per incitare i giocatori della squadra di calcio di cui è proprietario prometta loro come premio, in caso di vittoria, «un pullman di troie». Era uno scherzo, naturalmente, come il senatore ha tenuto a precisare, offeso, quando si sono scatenate le polemiche. Ma la sua storia personale è ben rappresentata dal livello di questo scherzo.
Fra grandi tragedie, vergognosi scandali e piccoli episodi di squallore morale, sembra clamorosamente smentita la tesi di un noto intellettuale emergente, Yual Noah Harari, che ha avuto enorme successo con il libro, Sapiens. Da animali a dèi, seguito dall’altro Homo Deus. Breve storia del futuro, nei quali descrive l’irresistibile ascesa del genere umano, grazie alla tecnica, verso traguardi che lo porterebbero a sostituire le vecchie e obsolete divinità, compreso il Dio cristiano (Harari è rigorosamente ateo).
Di questa ambiziosa (anche se, per sua stessa ammissione, problematica) prospettiva Harari parla appunto nella sua seconda opera, pubblicata nel 2018. Solo che, nella quarta di copertina, dove ne è sintetizzato il contenuto, si legge: «Nel XXI secolo, in un mondo ormai libero dalle epidemie, economicamente prospero e in pace, coltiviamo con strumenti sempre più potenti l’ambizione antica di elevarci al rango di divinità, di trasformare “Homo sapiens” in “Homo Deus”».
Un quadro che l’epidemia di covid, la guerra in Ucraina e i problemi migratori legati alla sempre crescente desertificazione del pianeta, hanno reso, dopo appena due anni, ben poco corrispondente alla realtà effettiva delle cose. Il problema non sono solo i rischi, dall’autore previsti, insiti nel progresso tecnologico, ma le fragilità e le contraddizioni da cui l’Homo appare strutturalmente segnato e che rendono poco prevedibile la sua progressiva trasformazione in Deus.
Il disagio di una non-attesa
Alla luce di questa evidenza, che getta un’ombra pesante sul futuro, sembra del tutto fuori luogo l’attesa festosa del prossimo Natale. E in effetti, quasi nessuno lo aspetta veramente. Il rituale consumistico degli acquisti è ormai così preponderante, rispetto al significato religioso della festa, da rendere quest’ultimo, agli occhi dei più, quasi irrilevante. A consolare la gente sembrano bastare il pellegrinaggio nei negozi e le luminarie del centro, i preparativi dei festeggiamenti, la prospettiva delle imminenti vacanze.
Eppure tutti avvertiamo il disagio di un mondo dove le cose non vanno nella direzione della verità e giustizia, senza le quali anche l’apparenza della pace (che comunque non c’è) sarebbe un’illusione. Tutti portiamo nel cuore, più o meno consapevolmente, l’insoddisfazione per il presente. Ma senza che questo si traduca in una reale e fattiva attesa del futuro. È come se fosse subentrata una sottile rassegnazione. È significativo il distacco di una percentuale sempre più consistente di italiani dalla politica, chiaramente espresso dall’astensionismo nelle ultime elezioni (36% degli elettori), già maggiore che nelle precedenti e immensamente più grande che in quelle del secolo scorso. Un modo di uscire dal gioco che rivela una sottile, inespressa disperazione. Perché è proprio la speranza che, in mezzo a questi chiassoso clima di festa, sembra la grande assente. Non aspettiamo più niente di veramente nuovo.
La nostra non-attesa ricorda quella di un famoso testo teatrale, della metà del secolo scorso, di Samuel Becket, Aspettando Godot. In esso l’autore mette in scena due poveracci, Vladimiro ed Estragone, che, a un angolo di strada, attendono l’arrivo di un misterioso personaggio, di nome Godot, che sembra incarnare, ai loro occhi, la risposta alle loro esigenze. E il nome stesso, in effetti, è allusivo: Becket, un inglese francofono, utilizza il termine God (“Dio” in inglese), dandogli una coloritura francese. Ma già l’inconcludenza del dialogo dei due protagonisti – in realtà due monologhi dissennati, che si intrecciano senza veramente incontrarsi – lascia trasparire la vanità di questa attesa. Ne riportiamo solo qualche battuta:
«Estragone: “Dovrebbe già essere qui”. Vladimiro: “Non ha detto che verrà di sicuro”. Estragone: “E se non viene?”. Vladimiro: “Torneremo domani”. Estragone: “E magari dopodomani”. Vladimiro: “Forse”. Estragone: “E così di seguito”. Vladimiro: “Insomma…”. Estragone: “Fino a quando non verrà”. Vladimiro: “Sei spietato”. Estragone: “Siamo già venuti ieri”. Vladimiro: “Ah no! Non esagerare, adesso”. Estragone: “Cosa abbiamo fatto ieri?”. Vladimiro: “Cosa abbiamo fatto ieri?”. Estragone: “Sì”. Vladimiro: “Be’… (Arrabbiandosi) Per seminare il dubbio sei un campione” (…) Estragone: “Sei sicuro che era stasera?”. Vladimiro: “Cosa?”. Estragone: “Che bisognava aspettarlo?”. Vladimiro: “Ha detto sabato. (Pausa) Mi pare” (…) Estragone: “Ma quale sabato? E poi, è sabato oggi? Non sarà poi domenica? O lunedì? O venerdi?”».
Privi di memoria e incapaci di progettare il futuro (non sanno bene neppure esattamente cosa si aspettano da Godot) i due appaiono smarriti anche per quanto riguarda la loro collocazione nel presente, ma non fanno nulla per cambiare la situazione di disperata immobilità a cui sembrano condannati. Perciò, quando, alla fine, come prevedibile, un ragazzo porta la notizia che Godot non verrà, e uno dice all’altro: «Andiamo», la didascalia con cui l’opera si conclude avverte: «Non si muovono».
Una proposta alternativa
In questo contesto acquista un singolare significato la definizione che la tradizione cristiana ha sempre dato del periodo che precede il Natale: «tempo di Avvento». Un richiamo all’attesa di ciò che deve avvenire. Un richiamo che, alla luce di quanto si è appena detto, appare profondamente inattuale. Siamo ancora capaci di attendere qualcosa che non sia la crescita del Pil? Nel Sessantotto ci si batteva contro il “sistema”, nella convinzione che fosse possibile un futuro radicalmente diverso, migliore del presente. Oggi nessun partito, nessun uomo politico, nessun intellettuale ha la fantasia e il coraggio di avanzare una simile scommessa. La scena è dominata da influencer che sponsorizzano prodotti del mercato.
A fronte di questo, la proposta dell’Avvento cristiano è la sfida a prendere sul serio la speranza di un autentico rinnovamento come prospettiva di senso per la nostra vita personale e sociale. Dove il termine “senso” raccoglie in sé la duplice accezione di “significato” e di “direzione”: non si può dare significato neppure al presente se non c’è una direzione in cui andare. Si può condividere o meno il valore religioso di questo richiamo, ma esso può avere almeno un valore di stimolo alla ricerca e all’impegno anche per il non credente.
A patto, però, di farci carico di tutta la fragilità e la contraddittorietà della condizione umana, che rende assai più plausibile che Dio si faccia uomo per condividerla e riscattarla, a partire dalle sue ferite e dalle sue oscurità, piuttosto che l’uomo, con il suo inarrestabile progresso, si faccia Dio.
tuttavia.eu, 16/12/2022
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