di Giuseppe Savagnone
Responsabile del sito della Pastorale della Cultura dell'Arcidiocesi di Palermo, www.tuttavia.eu. Scrittore ed Editorialista.
La Lega si fa sentire
L’iniziativa del ministro per gli affari Regionali, Roberto Calderoli, di presentare alla conferenza Stato Regioni una proposta per l’attuazione del “regionalismo differenziato”, senza neppure farla passare dal Consiglio dei ministri, evidenzia il protagonismo, in questa fase iniziale, della componente leghista del governo e i problemi che la nuova maggioranza si trova a dover affrontare, ora che si tratta di tradurre in scelte politiche concrete il suo programma elettorale.
Perché questo programma, al terzo punto, prevedeva – insieme all’elezione diretta del capo dello Stato, voluto dalla Meloni – il riconoscimento delle autonomie regionali, caldeggiato da Salvini e dal gruppo dirigente leghista. Due progetti molto diversi e potenzialmente contraddittori, che nel testo erano semplicemente giustapposti: il primo volto a rafforzare il potere centrale – in linea con la tradizione statalista, in cui affonda le sue radici il partito della premier – , l’altro versione residuale dell’originaria dottrina separatista della Lega, volta alla secessione e alla totale autonomia delle regioni del Nord (la cosiddetta “Padania”).
Era chiaro che i rapporti di forza all’interno del governo avrebbero dovuto sciogliere questo nodo a favore dell’una o dell’altra linea. La Lega, con Calderoli, ha rotto gli indugi e ha fatto le prima mossa. Come è stato, del resto, nella questione dei migranti, che Giorgia Meloni avrebbe preferito risolvere, come aveva più volte ripetuto in precedenza, bloccando le partenze dall’Africa, piuttosto che un braccio di ferro nei nostri porti, come invece poi è avvenuto.
E come è stato nei rapporti con la Francia, che la premier aveva cercato di coltivare in modo privilegiato fin dall’indomani del suo insediamento a Palazzo Chigi, incontrando Macron a Roma e poi in Egitto, e che invece sono andati all’aria, in una logica di contrapposizione sottolineata dalle dichiarazioni di Salvini, proprio all’indomani dello scontro con Parigi su questo tema, sulla necessità di usare «il pugno duro» nei confronti dei migranti.
La Meloni ha cercato di rimediare per quanto possibile, approfittando della conferenza di Bali per dissipare, con gli incontri a livello personale, la percezione di un isolamento internazionale del nostro Paese dopo le recenti incomprensioni con la Francia e dichiarazioni di sostengo, da parte della Germania, nei confronti delle Ong.
Due domande
Ma ora una nuova grana viene a minacciare, stavolta dall’interno, la compattezza dell’esecutivo. Non a caso le reazioni degli alleati della Lega sono state molto caute, per non dire decisamente fredde. «L’autonomia differenziata si farà, certo», ha detto il vicecapogruppo di Fratelli d’Italia alla Camera, Alfredo Antoniozzi, «ma con un equilibro armonico tra nord e sud e secondo un quadro di coesione nazionale».
Perché queste sono le due domande che sorgono spontanee: se le regioni più ricche del nostro Paese – quelle del nord – diventano autonome, che ne sarà di quelle del sud, più povere, che finora hanno potuto contare sull’aiuto delle prime per colmare, con difficoltà, i loro deficit? E, se si profila questa vastissima autonomia regionale, potrà sopravvivere la «coesione nazionale»?
Il progetto presentato dal ministro Calderoli non è rassicurante sotto nessuno dei due aspetti. In base ad esso, alcune regioni che già scalpitano per essere sciolte dai vincoli di solidarietà nazionale che ne limitano i poteri – Lombardia, Veneto e Friuli-Venezia Giulia (ma in pole position ci sono pure Emilia-Romagna e Toscana), potrebbero organizzare e gestire autonomamente il sistema scolastico quello sanitario, quello energetico, quello dei trasporti (porti, aeroporti). Per citare solo alcune delle ventitré materie che sarebbero devolute dallo Stato ai governi regionali.
Calderoli, come già Salvini, sostiene che il regionalismo sarebbe vantaggioso anche per le regioni meridionali. Tesi, a dire il vero, ardua da giustificare, visto che a causa di questa autonomia, secondo i primi calcoli, verrebbero meno ai servizi di quelle regioni, già ampiamente carenti, risorse considerevoli. Sta di fatto che i governatori del sud hanno reagito tutti più o meno negativamente al progetto del ministro.
Ma, al di là delle perdite e dei guadagni delle singole regioni, c’è da chiedersi se un Paese in cui esistono sistemi scolastici differenti abbia ancora una unità culturale. Per la Lega questo non è mai stato un problema, perché il suo originario progetto era una pura e semplice secessione della Padania dal resto d’Italia.
Più in generale, il rischio paventato e denunziato dai critici è la nascita – o la conferma? – di un’Italia spaccata in un’area di serie A e in una di serie B. Dove si riprodurrebbe il meccanismo colonizzatore post-unitario di un nord che utilizza il sud come mercato per i suoi prodotti e vivaio per la forza di lavoro qualificata (gli emigrati “interni” che già oggi, dopo aver utilizzato le risorse di casa loro per studiare, vanno a potenziare le industrie dl nord).
Ritorno alla Lega nord?
Per la verità, Salvini sembrava aver abbracciato una prospettiva diversa, quando aveva cercato di spostare l’asse del partito dal nord verso il centro e il sud (da dove anche il cambiamento del nome da Lega nord a Lega), trovando pure, nei territori degli ex “terroni”, degli adepti che gli avevano creduto e lo avevano appoggiato.
I risultati delle ultime elezioni hanno deluso queste speranze, evidenziando un fiasco dei candidati leghisti al sud e, cosa ancora più grave, lasciando intravedere una sempre maggiore disillusione da parte degli antichi sostenitori delle regioni settentrionali. Da qui il malumore dei maggiorenti leghisti – primo fra tutto il governatore del Veneto, Zaia – e l’urgenza di recuperare i temi autonomistici tradizionalmente cari alla base del partito.
Certo, c’è da chiedersi se, in questo momento, così difficile per il nostro Paese, sia il caso di accendere un dibattito che rischia di spaccare la maggioranza. Ma forse anche questo interrogativo ha un senso solo se si ha a cuore il bene comune degli italiani come italiani, a prescindere dalle appartenenze regionali.
Resta da vedere cosa farà il governo. Certo, i voti della Lega sono indispensabili per la sua sopravvivenza. Nel confitto con Berlusconi, Giorgia Meloni ha detto a chiare lettere di non essere ricattabile. Sarà capace di dirlo anche a Salvini?
tuttavia.eu, 18/11/2022
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