mercoledì, novembre 23, 2022

Palermo. Mafia e pizzo a San Lorenzo, 20 condanne


Fra i condannati anche Mariangela Di Trapani, donna boss e moglie di Salvino Madonia Le parti civili ottengono i risarcimenti per le estorsioni nei cantieri e ai commercianti

Virgilio Fagone

Diventano definitive le condanne al processo Talea, il procedimento per mafia ed estorsioni contro capi e gregari della cosca di Resuttana e San Lorenzo, coinvolti nella retata dei carabinieri del 5 dicembre 2017. La quinta sezione della Cassazione ha messo la parola fine sull’iter giudiziario dell’inchiesta in cui erano state ricostruite diverse storie di pizzo, a cominciare da quella contro i gestori della pizzeria La Braciera, che avevano trovato il coraggio di denunciare e fare arrestare in flagrante gli autori delle richieste di danaro.

Come loro, altri esercenti, accompagnati nel percorso da associazioni di categoria e movimenti antiracket, hanno fornito preziosi racconti utili alle indagini. Tanto che i venti imputati sono stati condannati anche al pagamento delle spese legali sostenute dalle parti civili, come Confcommercio, Confesercenti, Solidaria, Sos Impresa, Fai, Centro studi Pio La Torre, Sicindustria, Comitato Addiopizzo e Associazione Caponnetto.

I supremi giudici hanno confermato quasi interamente la sentenza della prima sezione della Corte d’appello, presieduta da Adriana Piras, a latere i relatori Mario Conte e Luisa Anna Cattina. Tra i personaggi colpiti dal verdetto c’è anche una donna-boss: Maria Angela Di Trapani, la moglie del superkiller Salvino Madonia, alla quale in appello erano stati inflitti quattro anni. Nell’elenco dei condannati ci sono pure Pietro Salsiera (14 anni), l’ex vigile del fuoco Giovanni Niosi (10 anni), Giuseppe Biondino (9 anni e 2 mesi) Filippo Bonanno (9 anni e 4 mesi), Antonino Catanzaro (2 anni e 8 mesi), Francesco Paolo Liga (10 anni e 4 mesi), Salvatore Lo Cricchio (8 anni, per lui è stata annullata la sentenza impugnata per valutare se concedergli la continuazione, come chiesto dai suoi legali), Francesco Lo Iacono (2 anni e 8 mesi), Corrado Spataro (11 anni e 8 mesi), Lorenzo Crivello (8 anni e 8 mesi), Ahmed Glaoui, Antonino La Barbera, Salvatore Ariolo (5 anni), Massimiliano Vattiato (8 anni e 2 mesi), Ignazio Calderone (4 anni), Stefano Casella e Antonino Tumminia (2 anni e 2 mesi). Per Casella annullamento della sentenza impugnata solo per valutare se concedergli le attenuanti generiche: deciderà la Corte d’appello. Per Pietro Salamone (10 anni) è stata annullata la sentenza solo per decidere se dargli un aumento di pena per la continuazione. Per Sergio Napolitano in appello era stata pronunciata una condanna a 12 anni e 8 mesi ma adesso la pena dovrà essere ricalcolata: anche in questo caso, «rinvio» in appello.

Nel processo di secondo grado erano stati condannati anche due collaboratori di giustizia: Sergio Macaluso (11 anni, 5 mesi e 10 giorni) e Domenico Mammi (7 anni e 6 mesi), ma ora non erano più tra gli imputati. Nel mirino dei mafiosi di San Lorenzo c’erano anche i cantieri edili. Un’impresa era stata costretta a versare 50 mila euro in tranche da 10 mila per portare a termine senza intoppi le ristrutturazioni degli immobili. E se qualcuno faceva scherzi, Macaluso (all’epoca non ancora collaborante) intercettato minacciava di far volare qualche operaio per ritorsione, «dal decimo piano, incidente sul lavoro». Nel campionario dei metodi usati dagli esattori del pizzo per la cosiddetta messa a posto ci sono decine di episodi, così come ricostruito dagli investigatori anche grazie a microspie e intercettazioni. In genere si inizia con la richiesta di fare «una cortesia, senza impegno, senza farsi nessun problema» e finisce però con pressioni sempre più pesanti, con gli esattori del pizzo che si presentano costantemente e pretendono fino all’ultimo euro, incuranti delle difficoltà economiche degli imprenditori. Oltre a pagare il pizzo i ristoratori erano anche costretti ad assumere parenti dei loro estortori, mentre le ditte edili dovevano rifornirsi di materiali solo da chi dicevano loro. E a chi non si piegava o tardava a pagare arrivavano minacce da far tremare, con metodi duri e violenti.

Nell’atto d’accusa contro gli imputati, i magistrati della Direzione distrettuale antimafia hanno ricostruito numerose storie di imprenditori costretti a pagare.

GdS, 23/11/2022

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