di FRANCESCO ALÌ
Correva l’anno 1972 ed è passato mezzo secolo da quando più di 50 mila persone, provenienti da tutta Italia, parteciparono alla manifestazione sindacale unitaria di Reggio Calabria intonando lo slogan “Nord e Sud uniti nella lotta”.
Era la risposta democratica alla rivolta scoppiata nella città dello Stretto nell’estate del 1970, una guerra civile durata circa 8 mesi, con scontri, barricate, attentati, bombe, morti e feriti, esplosa dopo la scelta di Catanzaro capoluogo della Regione che venne interpretata dai reggini come un’offesa, una provocazione, una prevaricazione, uno “scippo”. Era il 14 luglio 1970 quando, al grido di “Boia chi molla”, partirono i “moti di Reggio Calabria”.
L’estrema destra seppe cavalcarli, da un lato, cercando di farsi identificare come rappresentante degli interessi delle popolazioni territoriali in lotta; dall’altro, attraverso la strategia della tensione (il 22 luglio 1970, intorno alle 17.10, a Gioia Tauro una bomba fece deragliare il treno Freccia del Sud, partito dalla Sicilia e diretto a Torino, provocando 6 morti e 67 feriti; il 4 febbraio 1971, a Catanzaro, una bomba fatta esplodere all’interno di un corteo antifascista provocò un morto e diversi feriti). Alla fine della rivolta si conteranno 11 morti tra manifestanti e forze di polizia. Il primo a cadere fu Bruno Labate, ferroviere iscritto alla CGIL. Un segnale, a parere di alcuni, di come almeno in origine il popolo in lotta non fosse solo quello fascista. Anche l’orientamento politico della città, fino a quel momento, non era stato fascista. Le elezioni comunali che anticiparono lo scoppio dei moti avevano consegnato alla DC il 33% dei consensi, al PCI il 22%, al PSI il 14%, mentre il MSI si era fermato al 9%.Durante i moti i partiti si divisero, anche al loro interno. La DC locale (guidata dal sindaco Pietro Battaglia che, pur prendendo le distanze dalle forme di violenza, aveva infiammato gli animi con il suo Rapporto alla città) sosteneva la causa di Reggio capoluogo. Il PSI e il suo segretario nazionale, Giacomo Mancini, insieme al democristiano Riccardo Misasi, entrambi di Cosenza, avevano supportato la “designazione” di Catanzaro e venivano accusati di tradimento dai rivoltosi perché considerati gli ispiratori dello “scippo”. Per il PCI e la CGIL i moti erano populisti e fascisti. Per questo le sedi del partito e del sindacato vennero prese d’assalto e, per difenderle, dirigenti e militanti le presidiarono giorno e notte, a rischio della loro vita. Pietro Ingrao, durante un comizio in città, subì una dura contestazione. Il MSI riuscì, invece, a conquistare la città grazie soprattutto al suo nuovo leader Ciccio Franco ‒ al tempo anonimo sindacalista della CISNAL (Confederazione Italiana Sindacati Nazionali Lavoratori) ‒ che, al grido di “Boia chi molla” e schierandosi apertamente contro lo “scippo”, si ritrovò ad essere difensore dei reggini e condottiero riconosciuto della rivolta. Le elezioni seguenti lo premiarono: fu senatore del MSI con il 36,2% dei voti.
A febbraio del 1971, per sedare la rivolta, il presidente del Consiglio, Emilio Colombo (esponente di spicco della DC), portava in Parlamento il cosiddetto “Pacchetto per la Calabria” o “Pacchetto Colombo”. Con esso, arrivò anche una suddivisione fantasiosa ed originale delle sedi e della collocazione del potere politico-istituzionale nella Regione: giunta a Catanzaro, consiglio a Reggio Calabria, università a Cosenza. Il Pacchetto voleva essere una ricompensa per i “torti” subiti da Reggio. Annunciava investimenti in tre aree della provincia: il centro siderurgico a Gioia Tauro, l’industria chimica a Saline Joniche, il Decreto Reggio nella città “scippata”. Il Pacchetto arrivò tra la diffidenza e la sfiducia generale. I reggini avrebbero preferito il capoluogo, gli uffici della Regione significavano occupazione stabile, con garanzie, diritti e lo stipendio a fine mese. Non era una questione di “pennacchio”. Chi strumentalizzava i rivoltosi sapeva di soffiare sul fuoco della disperazione e della fame di lavoro. Oggi sappiamo che, insieme alle coltivazioni distrutte per far posto ai nuovi investimenti, andarono perse anche le promesse di rilancio industriale. A memoria di quelle incompiute rimangono il fumaiolo di Saline e il porto di Gioia che doveva servire per collegare quel Sud al resto del mondo, ma rimane uno scalo isolato, in una città isolata, in una regione isolata.
E il 23 febbraio 1971, i carri armati dell’esercito demolirono le barricate. I moti di Reggio si conclusero lì. La città era stata riconquistata e i “Boia chi molla” erano stati sconfitti.
La grande conflittualità di quella fase non consentì un’analisi completa di quanto accaduto. Così, la rivendicazione di “Reggio capoluogo” contro la “designazione” di Catanzaro venne sottovalutata e declassata ad una “questione di campanile”. A distanza di mezzo secolo, i conti con quella storia non sono stati completati e si continua a far fatica a comprenderne la genesi e gli sviluppi. E non si tratta di una storia da consegnare agli studiosi ed agli storici, ma soprattutto alla politica. Non a caso la CGIL di Reggio Calabria e regionale con il suo archivio storico nazionale e le categorie nazionali, regionali e territoriali di FILLEA (Federazione Italiana dei Lavoratori del Legno, dell’Edilizia, delle industrie Affini ed estrattive), FLAI, FIOM (Federazione Impiegati Operai Metallurgici) e SPI (Sindacato Pensionati Italiani), si sono date appuntamento nei giorni scorsi per approfondire e raccontare la manifestazione del 22 ottobre del 1972, la prima vera risposta politica alla “rivolta di Reggio”. La città che si affaccia sullo Stretto, nell’autunno del 1972, fu la sede scelta per una importante manifestazione nazionale dei sindacati dei metalmeccanici, degli edili e dei braccianti di CGIL, CISL e UIL. Era la “Vertenza per il Mezzogiorno”, una manifestazione unitaria in cui giocò un ruolo fondamentale il rapporto tra PCI e CGIL. Alcune settimane prima, nel corso di un convegno sul Mezzogiorno del PCI, Enrico Berlinguer disse che «La manifestazione di Reggio Calabria andava nella direzione giusta e avrebbe avuto l’appoggio del partito».
La manifestazione, voluta innanzitutto da Bruno Trentin, Pierre Carniti e Giorgio Benvenuto, è preceduta da una Conferenza sul Mezzogiorno alla quale presero parte Luciano Lama, Rinaldo Scheda, Claudio Truffi, Feliciano Rossitto, Alfredo Reichlin, Pietro Ingrao. Trentin la annunciò così: «Arriveranno in molti, dal Mezzogiorno, anche dal Nord. Gente che non è venuta qui per dare lezioni a nessuno, che sta facendo un lungo viaggio ed ha un lavoro massacrante. Fra loro i nuovi dirigenti della classe operaia del Nord che, in grande maggioranza, sono calabresi, siciliani, pugliesi». E Lama sottolineò: «Sta a noi dimostrare la buona fede, ma anche l’indicazione di obiettivi. Poi la grande manifestazione di massa. Sta a noi dimostrare che siamo capaci di impegnarci durevolmente con programmi che possano dare dei risultati trasformando l’esasperazione, la frustrazione, la disperazione di tanta gente in speranza e in fiducia. È stato detto giustamente che qui l’unica fabbrica che esiste è l’Omeca con 300 lavoratori che fabbricano carri ferroviari. Ne doveva avere 2000 lavoratori, secondo le promesse. Invece ne ha 300».
I lavori della manifestazione furono programmati su tre giorni: i primi due di convegno (20 e 21 ottobre), una grande marcia di lavoratori nell’ultimo giorno. La preoccupazione era altissima. Si temeva la ripresa dei disordini di due anni prima: i “Boia chi molla”, guidati sempre più chiaramente dal MSI di Giorgio Almirante, parlavano di una nuova provocazione. Reggio Calabria era nuovamente al centro dell’attenzione politica nazionale. Non poteva essere altrimenti. La manifestazione promossa dal movimento sindacale unitario era impegnativa, ma anche rischiosissima. Il sindacato, con la sua potente macchina organizzativa ed un collaudato servizio d’ordine, adottò diverse strategie per evitare infiltrazioni, attentati e per limitare l’esposizione dei delegati a provocazioni che avrebbero potuto innescare scontri e disordini già durante la conferenza. Non solo. Erano attesi in città migliaia di manifestanti già in viaggio con autobus, treni, navi e voli speciali. Tutto il percorso era stato messo sotto stretta vigilanza sia da parte delle forze dell’ordine che del servizio d’ordine sindacale e del PCI. Tuttavia, malgrado il robusto spiegamento di forze, nella notte tra il 21 e il 22 ottobre, scoppiarono delle bombe sulla linea ferroviaria nei pressi di Latina. Rimase coinvolto un treno proveniente dall’Emilia-Romagna. La notizia si diffuse in pochi minuti. I leader politici e sindacali si riunirono immediatamente. Per fortuna non si registravano né morti né feriti gravi. È facile intuire che le istituzioni e le forze dell’ordine fossero al lavoro per raccomandare il ridimensionamento della manifestazione. Gli organizzatori considerarono anche di dirottarla a Roma dove l’iniziativa politica ed il corteo sarebbero stati più al sicuro. Ma i manifestanti in viaggio non raccolsero l’invito alla prudenza che arrivava dal quartier generale e proseguirono per Reggio Calabria. Con la collaborazione tra Ferrovie dello Statoe ferrovieri, i treni dei manifestanti furono preceduti da “treni civetta”. Così vennero scongiurati altri attentati. Ma il traffico ferroviario era ormai in tilt.
I primi pullman arrivarono all’alba. Ad attenderli i compagni del servizio d’ordine con cestini contenenti le colazioni e le bevande per scaldare cuori e muscoli. Nella notte erano arrivati due aerei da Trieste e dalla Sardegna, due navi da Genova e Napoli e anche qualche treno. Intorno alle 11 il corteo era pronto per partire. I dirigenti politici e sindacali si assumevano una grande responsabilità in termini di sicurezza e tutela delle persone. Inoltre, molte delegazioni del Nord non erano ancora arrivate in città. Mancava, quindi, una parte fondamentale del servizio d’ordine. Ecco perché si pensò che fosse meglio fermare i manifestanti nel luogo di raccolta rinunciando al corteo. Ma anche questo nuovo invito alla prudenza cadde nel vuoto e il corteo, dopo una sosta di riflessione, riprese il cammino con in testa i lavoratori dell’Omeca e lo slogan “Avanti col popolo di Reggio”. Da molti balconi arrivarono applausi e fiori, ma anche saluti fascisti, urla, insulti, provocazioni e pietre da tante traverse presidiate dalla polizia in assetto antisommossa che cercava di evitare il contatto tra provocatori e corteo. In questo clima infuocato i manifestanti raggiunsero la piazza della stazione, luogo del comizio. Piano piano arrivavano anche i treni in ritardo. E, per onorare il sacrificio di tutti, il comizio andò avanti per diverse ore. Così, dal palco, i leader sindacali: «È significativo che i fascisti abbiano deciso di attaccare i treni, i convogli che portavano i lavoratori alla manifestazione di Reggio. Per quello che i treni significano, soprattutto nel Sud. Il treno che porta via gli emigranti non volevano consentire che tornasse per partecipare a questa grande manifestazione. Siamo in presenza di una criminalità organizzata che è indicativa dell’isolamento e del fatto che si tratta di gente disperata perché ha capito che l’iniziativa di lotta dei lavoratori, questa grande manifestazione sindacale, rappresenta un colpo durissimo. Ecco perché reagiscono con rabbia e disperazione. Ma debbono sapere che non siamo nel ’22 e che la classe operaia, le masse popolari, le forze politiche democratiche, hanno la forza ed i mezzi per difendere le Istituzioni democratiche dall’attacco e dall’aggressione fascista. Oggi non sono calati a Reggio Calabria i barbari del Nord, ma con gli impiegati e gli operai del Nord sono tornati a Reggio i meridionali, la gente costretta ad emigrare. E sono tornati per affermare il loro impegno a battersi, a lottare per poter ritornare, ma non per un giorno solo, per poter tornare perché altri non siano costretti a partire».
Su uno dei treni provenienti da Roma salì anche la cantautrice Giovanna Marini. Ha scritto musica e parole che aiutano a comprendere quella giornata:
«Andavano col treno giù nel Meridione per fare una grande manifestazione il 22 d’ottobre del ’72 […] tutti cantano Bandiera Rossa. Dopo venti minuti che siamo in cammino si ferma e non vuole più partire si parla di una bomba sulla ferrovia […] Ormai siamo a Reggio e la stazione è tutta nera di gente. Domani chiuso tutto in segno di lutto, ha detto Ciccio Franco. E alla mattina c’era la paura e il corteo non riusciva a partire ma gli operai di Reggio sono andati in testa e il corteo si è mosso. Volavano sassi e provocazioni ma nessuno s’è neppure voltato. Le voci rompevano il silenzio e nelle pause si sentiva il mare. E alla sera Reggio era trasformata: pareva una giornata di mercato, quanti abbracci e quanta commozione, il Nord è arrivato nel Meridione. […] Gli operai hanno dato una dimostrazione».
treccani.it, 4/11/2022
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