di ANGELO PICARIELLO
Il successo della miniserie televisiva «Esterno notte» e il valore della memoria collettiva. L’eredità dello statista democristiano non può restare confinata alla vicenda del suo sequestro. Dal tema della giustizia riparativa a quello della pace, il suo pensiero parla ancora a noi
C’è una scena surreale, contenuta in un romanzo storico da poco uscito per Einaudi (Il Dio disarmato), che fotografa bene via Fani come il luogo della nostra cattiva coscienza collettiva da cui non riusciamo a liberarci. Lo scrittore Andrea Pomella, in preda a una sorta di personale ossessione per l’agguato che portò al rapimento di Aldo Moro e all’eccidio della sua scorta, nell’ennesima visita sul posto teme a un certo punto che dalle ossessioni possa essere passato alle allucinazioni, quando incrocia, un lunedì mattina, in quel maledetto incrocio auto e moto dell’epoca e in particolare le tre macchine coinvolte nell’agguato. Nessuna allucinazione, si trattava più semplicemente del ritorno contemporaneo sul “luogo del delitto” di un altro ossessionato da quell’evento del 16 marzo 1978, Marco Bellocchio, che stava girando le riprese di Esterno notte.
L’ 83enne regista piacentino a 19 anni da Buongiorno notte (che aveva concluso con la liberazione dell’ostaggio) ha voluto tornarci sopra per raccontare l’esterno, stavolta, della prigione, ma sempre dentro quei 55 giorni. L’ha fatto con un cast di eccezione in cui spiccano Fabrizio Gifuni nei panni di Aldo Moro, Margherita Buy in quelli della moglie, Toni Servillo (Paolo VI), Fausto Russo Alesi (Francesco Cossiga), Gabriel Montesi (Valerio Morucci), Daniela Marra (Adriana Faranda). Un successo di pubblico e di critica aveva accolto l’arrivo nelle sale di questo colossal in sei atti poi diventato una miniserie tv in tre puntate. Venerdì, la terza e ultima andata in onda sulla rete ammiraglia delle Rai, ha tenuto testa a Zelig,, mantenendosi in una media di 3 milioni di spettatori e oltre il 15% di share, dopo aver alla prima puntata, lunedì, fronteggiato bene il Grande fratello Vip. È la conferma che c’è spazio in tv anche per temi “difficili” che toccano la nostra memoria collettiva.
Bellocchio racconta i protagonisti «in quanto uomini, padri di famiglia alle prese con i loro problemi». Si prende le sue licenze (come quella in cui Moro-Gifuni porta la croce davanti a tutti i notabili dc). Una miniserie «complessa, problematica e adatta per dibattiti» promossa dalla Commissione nazionale di valutazione film della Cei. In particolare il Moro di Bellocchio «brilla per la luce della sua ragione e per la forza granitica della sua fede, anche negli anfratti più bui della prigionia. Come un povero Cristo, un “alter Christus”, che si incammina senza fare opposizione verso il Golgota, spintonato tanto dai brigatisti quanto dai compagni di partito». La fede figura come «punto centrale nella storia, come pure il bisogno di eucaristia. Bellocchio ci mostra Moro come un cristiano granitico, un uomo di fede piena». Altrettanto in Margherita Buy-Noretta la fede emerge nella sua «fierezza e fragilità». Nel suo ripetere «di continuo “siamo cristiani”» emerge «un richiamo a un impegno civile, morale, che non deve venire mai meno». Proprio in nome della fede «blinda la sua abitazione lasciando la politica fuori dalla porta, da cui si sente rabbonita e presa in giro». Rispettosa anche la rappresentazione di Paolo VI-Servillo, che va anche oltre la delusione espressa da Moro in una sua celebre lettera: «Il Papa ha fatto pochino, forse ne avrà scrupolo», non informato di certo delle iniziative da lui poste in essere e della ingente somma di denaro messa a disposizione come riscatto. Chi ne esce malissimo, invece, è la Democrazia cristiana come un po’ tutta la classe politica, e forse la politica stessa. La Rai è soddisfatta. Questa fiction «rappresenta la nostra idea di servizio pubblico», ha commentato l’ad Carlo Fuortes. E tuttavia qualche interrogativo si pone, al di là del giudizio ampiamente positivo sull’opera dal punto di vista artistico. I
l primo scaturisce proprio dalla bocciatura senza appello di un’intera classe politica. La Dc non seppe reggere all’onda d’urto generata dal rapimento del protagonista assoluto della sua vicenda interna, e non solo, portatore di una visione e di una autorevolezza tali da tenere unito il fragile sistema. Un po’ come se nel pieno della lavorazione di Esterno notte fosse venuto a mancare il regista, l’ideatore della trama, in grado tenere unito l’intero progetto. Il compromesso storico non ci sarebbe stato senza Moro e non ha resistito a lungo infatti senza di lui. La fragile impalcatura sarebbe stata messa a dura prova da una trattativa alla quale il partito comunista si era detto fermamente contrario come emerge nella parte iniziale del film. Come ha detto l’ex ministro Beppe Pisanu al tempo capo della segreteria di Zaccagnini (fu lui a rivelargli la tragica notizia della morte di Moro, durante la celebre riunione della direzione che doveva aprire alla trattativa) una politica più forte avrebbe potuto trattare la liberazione di Moro senza timore di esserne travolta. Ma una classe politica già fragile e lacerata, col suo esponente più autorevole fuori gioco si ritrovò ancor più inadeguata a reggere il corso tumultuoso degli eventi, e a ai condizionamenti interni ed esterni. E tuttavia i protagonisti di quella drammatica vicenda – rivelatasi inadeguati a fronteggiarla – escono dalla fiction massacrati persino oltre le loro colpe e responsabilità. Cossiga prigioniero unicamente delle sue patologie, Andreotti cinico e insensibile uomo di potere, persino il mite e probo Zaccagnini viene demolito, descritto come tremebondo e in definitiva “traditore” non meno degli altri , trovandosi tutti e tre nel ruolo in cui sono per scelta o per benevolenza del prigioniero che non sono riusciti a liberare. Eppure, divisi dal drammatico corso degli eventi, la famiglia Moro e i congiunti dei protagonisti politici della sua mancata liberazione si ritrovano ora insieme, fra i pochi, a criticare questa opera monumentale di Bellocchio, che rischia di trascurare che quella stessa classe dirigente, con Moro alla guida, ha tracciato la rinascita di un Paese ispirando riforme importanti, basti pensare alla sola, rivoluzionaria, riforma agraria, nel solco di una Costituzione di cui proprio Moro è stato fra i principali ispiratori.
Ma forse il vero problema risiede nei titoli di coda quando, con una formula di rito, la produzione rivendica libertà di elaborazione artistica circa i fatti narrati. Fatti sui quali il Paese ancora reclama di poter conoscere la verità e allora diventa operazione avventurosa andare a riempire i buchi con il genere romanzato, accedendo fatalmente alla vulgata prevalente, sempre vagamente populista. Ad esempio se non è per niente certo che il prigioniero Aldo Moro si sia potuto confessare e comunicare – don Antonello Mennini lo ha più volte smentito – attribuirgli in confessione pensieri e parole di odio inusitato verso Andreotti e di disprezzo brutale verso Cossiga è davvero operazione arbitraria. E dire che, senza bisogno di romanzare, Moro avrebbe tanto da dire alla nostra complessa attualità. Il Moro credente. Il Moro giurista, contrario all’ergastolo, interprete autentico di un testo costituzionale in cui si prescrive che la pena deve puntare alla rieducazione del reo e non deve mai essere contraria al senso di umanità. Il Moro ministro degli Esteri e presidente del Consiglio che collocò – con grave rischio personale – il nostro Paese, pur saldamente nella Nato, proiettato oltre la logica dei blocchi, con gli accordi di Helsinki, che anticiparono, in qualche modo, la caduta del muro di 14 anni. Al Quirinale l’appello dello storico Renato Moro, nipote dello statista, nel centenario della nascita , fu quello di «liberare Moro dal carcere brigatista». A cura dell’Edizione nazionale presieduta proprio dal professor Renato Moro, tutti gli scritti dello statista sono ora a portata di clic, a disposizione delle giovani generazioni. Giusto farsi interrogare da quel calvario durato 55 giorni. Ma occorre avere la capacità di saper andare ben oltre.
Avvenire, 19 novembre 2022
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