di Giuseppe Lumia
Si ritorna ad affrontare la questione della riforma della norma che prevede l’ergastolo ostativo per i condannati di mafia. Ancora una volta ci si divide tra l’approccio garantista e quello giustizialista.
Questa contrapposizione rischia di essere fuorviante e di scatenare l’ennesimo “conflitto a somma zero”. La Corte Costituzionale si era pronunciata per una sua parziale incostituzionalità e aveva stabilito la data del prossimo 8 Novembre per consentire al Parlamento di riformare nel frattempo l’istituto. Diversamente, avrebbe proceduto verosimilmente nella dichiarazione di incostituzionalità di una parte della norma e trovato essa stessa una soluzione al vuoto devastante che la soppressione di quella disposizione avrebbe provocato nell’ordinamento antimafia.
Il nuovo Governo con un decreto-legge ha ripreso il medesimo testo già votato dalla Camera, ma non dal Senato per via della chiusura anticipata della Legislatura. La discussione è quindi ricominciata da dove si era interrotta ed è subito diventata molto rovente. Allora è necessario ritornarci sopra e argomentare il senso attuale della permanenza dell’ergastolo ostativo e del perché ha una sua validità ancora oggi.
Riepiloghiamo un po’ la genesi di questo istituto.
L’ergastolo ostativo fa parte dell’idea di Falcone di costruire un peculiare sistema penale, di prevenzione, ordinamentale e amministrativo chiamato comunemente “doppio binario”, cioè specifico e più severo per il contrasto alle mafie, viste le loro particolari caratteristiche, che sono così offensive da erodere alla radice la più elementare convivenza civile e la stessa vita democratica.
In questo contesto normativo, è stata prevista per i mafiosi condannati all’ergastolo la possibilità di accedere alle misure premiali, a differenza degli altri detenuti, solo se scelgono di collaborare con la giustizia. Da qui la definizione di “ergastolo ostativo”.
La Corte Costituzionale ha ritenuto di confermare questo criterio ma ha chiesto al Parlamento di intervenire sottolineando che non può essere applicato un meccanismo automatico e che va invece prevista anche per il boss condannato all’ergastolo la possibilità di accedere alle misure premiali, se compie un percorso di ravvedimento durante l’espiazione della pena, senza necessariamente dover passare dalla stretta via della collaborazione.
In teoria è un ragionamento corretto, che ha senz’altro una sua validità costituzionale nel principio che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato” (art. 27 Cost.). In pratica, però, questo approccio va calato nella realtà del diritto vivente, considerando bene le caratteristiche dell’agire mafioso: se lasciato nell’astrattezza, infatti, rischia di essere pieno di falle e contraddizioni.
Perché?
Il problema dei problemi sta nella natura fattuale del “vincolo associativo” che lega il boss mafioso alla propria organizzazione mafiosa: dura per sempre, è indissolubile e non si spezza facilmente. Può essere superato solo nei rari casi in cui l’organizzazione mafiosa stessa “posa” il mafioso. Per il resto, solo con la collaborazione il boss può rompere il vincolo associativo. Diversamente, è legato a vita al destino della mafia.
Quando il boss è ristretto in carcere, occorre evidenziare quattro aspetti nella loro dimensione concreta, per capire che il percorso rieducativo in questi casi non può essere scisso dalla rottura dell’onnipresente “vincolo associativo”.
1) La dissociazione. Con il terrorismo ha funzionato, con la mafia non può funzionare. Il boss solo a parole può disconoscere l’appartenenza mafiosa. Può addirittura negare l’esistenza della mafia, perché il “codice mafioso” consente di divulgare le bugie verso l’esterno, mentre la verità va mantenuta in modo ferreo quando si è in presenza dei sodali. Per capire meglio, basti ricordare che quando un mafioso anche di rango viene catturato, vedi su tutti Riina o Provenzano, questi può senz’altro ripetere davanti al mondo intero che la mafia non esiste, anzi si presenta piuttosto dimesso e proclama di essere una vittima. Al contrario, un terrorista appena catturato si dichiara da subito prigioniero politico, sino ad assumere un tono fiero e orgoglioso della propria appartenenza. Pertanto al mafioso in carcere fa comodo recitare che sta malissimo e piagnucolare la propria estraneità mafiosa. Negare la stessa esistenza della mafia è normale e viene consentita la scelta, solo apparente, di dissociarsi dal proprio vincolo mafioso. L’importante per i boss è ottenere con qualunque furbata o escamotage la libertà di comunicare con l’esterno, riuscire ad aggirare l’ergastolo e, appena fuori, riprendere immediatamente la loro attività, coerentemente con il giuramento mafioso che li vincola a vita.
2) La comunicazione con l’esterno. Per il boss in carcere è una vera e propria ossessione, perché anche da detenuto non viene meno alla sua funzione. Infatti, una volta catturato o condannato non perde il ruolo apicale che ricopre nell’organizzazione e viene sostenuto nella sua funzione operativa da un “reggente” esterno per il tempo che è costretto a trascorrere in carcere. Tanto è vero che, quando un figlio va a trovare il papà boss recluso, viene senza nessuno scrupolo usato cinicamente per portare comandi all’esterno. In sostanza il “vincolo associativo” prevale addirittura sul “vincolo genitoriale”. Lo stesso avviene quando il boss si reca a messa, durante la detenzione: anche la cerimonia religiosa diventa un’occasione strumentale per comunicare con gli altri detenuti mafiosi, quindi il “vincolo religioso” viene surclassato del tutto dal “vincolo associativo”. Ecco perché è sempre necessario prevedere un regime carcerario di massima sicurezza per i mafiosi e applicare il 41-bis per i capi. In sostanza senza la rottura del vincolo associativo le stesse misure premiali diventano un cedimento insopportabile per la credibilità dello Stato.
3) La buona condotta. In carcere questo è un criterio, insieme alla partecipazione ai percorsi rieducativi, per stabilire se il detenuto si è ravveduto dalla sua condizione criminale. Per i boss mafiosi è normale, sempre in apparenza, comportarsi bene, studiare, socializzare e dare l’esempio di un corretto modo di essere. Nella realtà carceraria non è così: quando mettono piede in un Istituto di pena, conservano il vincolo associativo per cui sono rispettati, riveriti e serviti dagli altri detenuti, che altrimenti corrono rischi di rappresaglia anche mortali. Sino ai primi anni Novanta, il carcere per i boss era una sorta di “grand hotel” dove vivevano benissimo, potendo ricevere cibo dai migliori ristoranti, organizzare feste e trascorrere del tempo in pieno relax. Le condanne pesanti, il 41-bis e l’ergastolo ostativo appunto hanno messo in crisi il vincolo associativo nella vita del detenuto mafioso. Attenzione, questo è avvenuto senza ledere i diritti fondamentali dei boss e la loro dignità umana. Ecco perché lasciare la valutazione al solo criterio della buona condotta, senza la verifica dell’interruzione del vincolo associativo, rende privo di valore il percorso rieducativo e sociale durante la detenzione.
4) La paura del boss ravveduto di recedere dal vincolo associativo. Si ritiene, in alcuni passaggi argomentativi della Corte Costituzionale, che richiedere il passaggio della collaborazione per accedere agli Istituti premiali rischi di coartare la volontà del detenuto, soprattutto perché potrebbe temere ritorsioni dopo aver spezzato il vincolo associativo. Di fatto, si riconosce così che il vincolo associativo prevale al punto da bloccare una possibile scelta di ravvedimento, che sarebbe invece testimoniata dalla collaborazione. Si riconosce inoltre che il vincolo associativo è così forte da incutere soggezione al punto da condizionare la possibilità di abbandonare realmente e definitivamente l’organizzazione mafiosa. Due reali contraddizioni: perché la dissociazione dall’appartenenza mafiosa non incute timore di vendetta o rappresaglia anche nei confronti dei familiari? Perché si chiede invece ai testimoni vittima di mafia, in sede processuale e davanti ai boss, di denunciare le richieste estorsive, oppure di svelare omicidi e altri fatti rilevanti di cui si è venuti a conoscenza, pena la violazione del codice e del comportamento di buon cittadino ligio alla Costituzione? Insomma, si invoca lo Stato di diritto per incentivare alcune scelte come la dissociazione, si considerano altre, come la testimonianza, giustamente irrinunciabili, mentre sulla collaborazione si ritorna a quelle contrarietà che Falcone aveva fugato con serietà e rigore.
Forse alla Corte Costituzionale, e prima ancora alla Corte Europea, si sarebbero dovute far presenti, a livello istituzionale, le fattuali considerazioni sull’ergastolo ostativo per prevenire legittime critiche ed osservazioni, che non sono da scartare se rimaniamo su un piano più etico e valoriale.
Adesso la riforma va varata con il giusto bilanciamento e con le dovute attenzioni alle proposte che le diverse realtà della società civile organizzata hanno elaborato, per dare allo Stato e alla società la possibilità di non arretrare e semmai di colpire meglio quel “vincolo associativo” che farebbe sgretolare la forza riproduttiva e collusiva delle organizzazioni mafiose.
OMCOM - Osservatorio Mediterraneo sulla Criminalità Organizzata e la Mafia - 4/11/2022
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