mercoledì, novembre 16, 2022

L’ANNIVERSARIO. Zucchetto, in motorino a caccia di latitanti l’antimafia solitaria dei condannati a morte


di Piero Melati

Un senso di malinconia accompagna il quarantennale del sacrificio dell’agente di polizia Calogero Zucchetto, detto Lillo. 

Nativo della provincia di Caltanissetta, venne assassinato a soli 27 anni, alla vigilia del matrimonio, in via Notarbartolo, angolo via Libertà, davanti al bar Collica e al cinema Fiamma, luoghi dove allora si riuniva la “meglio gioventù” palermitana. Per eliminarlo, scese in campo lo “squadrone della morte”, quello dei “delitti eccellenti”, i cecchini più abili e glaciali di Cosa nostra: Pino Greco, detto “Scarpuzzedda”, Mario Prestifilippo, il “biondino”, e Giuseppe Lucchese, detto “ Lucchiseddu”. Viene tristezza a ricordare, non perché non vi sia stata cerimonia (si è celebrata ieri, sul luogo del delitto, seppur brevemente) ma perché Zucchetto, da semplice “sbirro”, appartiene alla categoria di “vittime di serie B”. 


Quest’anno, per cause di forza maggiore, l’anniversario del delitto Zucchetto cadeva in coda a cerimonie considerate ben più importanti, prima fra tutte quella che chiudeva le celebrazioni del trentennale delle stragi del ’92, per intitolare l’aula bunker, sede del maxiprocesso, ai giudici Falcone e Borsellino, alla presenza del presidente della Repubblica. Un appuntamento, quest’ultimo, peraltro macchiato dal rifiuto del magistrato Alfredo Morvillo, fratello di Francesca, moglie di Falcone, a parteciparvi. Così come dall’amarezza dei parenti del presidente di quel fatidico processo, Alfonso Giordano, e di quelli del segretario dell’aula bunker, Vincenzo Mineo, che hanno ritenuto essere stata l’ennesima volta in cui si è sorvolato sul ruolo storico avuto dai loro congiunti. 
Da trent’anni, com’è noto, la mafia non spara né mette bombe, quella corleonese addirittura non esiste più, distrutta dalla morte dei capi storici Riina e Provenzano, e dall’arresto dei latitanti. In assenza di pericoli imminenti, oltre alla prevenzione, educazione e vigilanza perché il fenomeno non si ripresenti mai più come prima, ci si divide soprattutto sulle sentenze legate al passato e sui modi di “fare memoria”. Di quella vecchia Cosa nostra, sopravvive ancora l’ultimo affiliato, Matteo Messina Denaro, fino a oggi misteriosamente impossibile da catturare. Ma almeno, in questi anni, lo si è ricercato con grandi mezzi e risorse. 
Ai tempi di Zucchetto, invece, era l’opposto. Dare la caccia ai latitanti era visto con fastidio, come se un manipolo di assassini godesse allora di indicibili coperture. Tanti altri, dopo le stragi del 1992, grazie alla reazione seppur tardiva dello Stato, si sono poi fregiati del titolo suggestivo di “cacciatore di latitanti”, soprattutto in sceneggiature e serie tv, quando finalmente divenne più agevole perseguire l’arresto dei boss, grazie a un impegno unanime delle istituzioni e alla loro conseguente copertura. 
Non era stato sempre così. Zucchetto faceva parte, a suo modo, di uno “ squadrone della morte”, stavolta da intendere non perché uccidesse, come facevano i killer mafiosi, ma piuttosto perché sono morti quasi tutti coloro che vi militarono, nel tentativo di assicurare i latitanti alla giustizia. Caddero uno dietro l’altro, quegli uomini: Giuliano, Montana, Cassarà, Antiochia, Mondo. Senza di loro, Palermo non sarebbe mai cambiata. 
Quarant’anni fa i grandi latitanti circolavano indisturbati per la città. A braccarli, in solitudine, solo quel gruppo di audaci, circondati da scetticismo, quando non da peggio. Il commissario Montana, alla vigilia del suo omicidio, e dello stesso maxiprocesso, venne persino rimosso dalla squadra Catturandi che comandava. Erano senza mezzi e, fra ogni ostilità, si facevano prestare dagli amici i cannocchiali con cui appostarsi oppure i motorini per inoltrarsi in incognito nei quartieri a rischio. Fatali a Zucchetto, in particolare, furono alcune circostanze: avventuratosi insieme al suo capo, Ninni Cassarà, a Ciaculli, si riconobbero a distanza proprio con i suoi futuri killer, Greco e Prestifilippo. 
Zucchetto ebbe anche un ruolo di primo piano nella cattura di un boss di spicco e, infine, raccolse le prime confidenze di Totuccio Contorno, che sarebbe diventato con Tommaso Buscetta il grande pentito del maxiprocesso. 
Questi, in sintesi, i fatti del passato. Ma cosa resta nel presente? Il nostro modo di “fare memoria”. Avere ridotto tutto a un cerimoniale, nella città che ha contato decine di morti ammazzati, comporta inevitabilmente una “selezione” e un’odiosa divisione per categorie: morti di serie A e di serie B, e di conseguenza anche parenti delle vittime di serie A e di serie B. Con l’inevitabile scomparsa di quei fatti di cui furono protagonisti proprio i caduti di serie B. Quando la lotta alla mafia, per esempio, che fu del tutto simile a una guerra civile, si dovette fare con indagini e pistole, e non con libri e onorificenze. 

La Repubblica Palermo, 15/11/2022

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