venerdì, novembre 04, 2022

La lotta alla povertà sia più mirata: il reddito di cittadinanza ha consentito la tenuta sociale, ma va migliorato


Alessandro Bellavista

Tutte le indagini e le ricerche disponibili dimostrano che, nella recente situazione di crisi sanitaria ed economica, solo la presenza del reddito di cittadinanza ha impedito che la diffusa povertà e la conseguente disperazione compromettessero inesorabilmente il tessuto sociale e, nella peggiore delle ipotesi, sfociassero in veri e propri tumulti. Tuttavia, l’istituto non è perfetto e presenta diverse criticità che vanno affrontate e risolte per farlo funzionare al meglio. In primo luogo, sono da modificare i criteri di attribuzione e determinazione del suddetto sostegno economico, che sono troppo farraginosi e fanno sì che, come risulta dal recente rapporto Caritas sulla povertà, sono coperti solo il 44% dei poveri assoluti, sono penalizzate le famiglie con figli rispetto ai singoli, gli stranieri non residenti da almeno dieci anni, e gli abitanti delle grandi città del Nord in confronto a quelli dei piccoli comuni del Sud, dove il costo della vita è decisamente inferiore. Vanno poi rafforzati i controlli per evitare truffe e abusi: comportamenti questi comunque endemici in un paese in cui il mancato rispetto delle regole e, per esempio, l’evasione fiscale, costituiscono una sorta di sport nazionale.

La questione più importante, e cioè quella al centro del dibattito politico e pubblico, riguarda l’inserimento al lavoro dei beneficiari cosiddetti “occupabili”. A questo riguardo, come osserva la professoressa Saraceno (la più autorevole esperta dei problemi della povertà del nostro paese e presidente del Comitato scientifico di valutazione del reddito di cittadinanza), «la narrazione per cui i beneficiari rifiuterebbero le offerte di lavoro perché il reddito dà loro abbastanza di che vivere, non trova riscontro empirico non solo nelle somme effettivamente percepite – 577 euro in media per famiglia, non per individuo, al mese – ma neanche in dati attendibili».

In particolare, «manca una base di dati nazionale che documenti le offerte effettivamente fatte ai beneficiari “occupabili” (un terzo di tutti i beneficiari) e i rifiuti da parte di questi ultimi». Peraltro, «quello che sappiamo è che meno di un terzo dei teoricamente “occupabili” è stato preso in carico da un centro per l’impiego»; e «il che non significa che abbia ricevuto una proposta di lavoro o di formazione, ma che il suo caso ha cominciato ad essere esaminato». Come è stato riportato su questo giornale, in Sicilia solo il 40% dei beneficiari è stato preso in carico dai centri per l’impiego rispetto alla media del 65% del Centro-Nord. Stando alle parole dei responsabili istituzionali, questo significa che il 60% dei beneficiari siciliani non è considerato “occupabile” e quindi è affidato ai servizi sociali dei comuni per partecipare a specifici progetti personalizzati di inclusione sociale.

Per ciò che concerne i cosiddetti “occupabili”, va dato atto che la Regione Siciliana sta cercando di muoversi rapidamente, anche con la collaborazione di soggetti privati professionalizzati (le cosiddette agenzie per il lavoro), per attivare tutti gli strumenti disponibili che consentano di rafforzare “l’occupabilità” dei suddetti beneficiari: costoro, infatti, nella maggior parte dei casi, hanno qualifiche professionali molto basse o del tutto nulle. E qui è fondamentale l’attivazione di effettivi percorsi di qualificazione, formazione e riqualificazione professionale.

Tuttavia, non basta agire solo sul piano dell’offerta di lavoro. Una reale politica di contrasto alla povertà e, in particolare, alla povertà lavorativa, presuppone la disponibilità di buoni posti di lavoro con salari decenti. E difatti diversi percettori del reddito di cittadinanza hanno sì un’occupazione, ma essa è temporanea e poco qualificata, con un compenso che non consente di uscire dalla soglia di povertà. È imprescindibile quindi agire anche sul lato della cosiddetta domanda, favorendo la nascita di nuovi posti di lavoro di qualità. Vanno così avvelenati i pozzi dei circuiti del sottosviluppo. È noto, infatti, che v’è “buona” occupazione solo dove vi sono “buone” imprese, altamente competitive e in grado di pagare salari dignitosi. Per fare ciò sono indispensabili coerenti politiche industriali nazionali e regionali volte a favorire insediamenti produttivi ad alto tasso tecnologico e ad innescare circuiti virtuosi di sviluppo e crescita economica. A questo riguardo, l’esempio storicamente più significativo è rappresentato dal New Deal roosveltiano, quando la Grande Depressione fu sconfitta grazie ad un ingente intervento pubblico che coniugò meccanismi di protezione economica dei disoccupati con fortissimi sostegni alla nascita di occasioni di lavoro nel settore pubblico e privato. Oggi, l’ingente disponibilità di risorse del Pnrr costituisce un’occasione formidabile per rilanciare il tessuto economico e rafforzare la coesione sociale. Su questo piano si gioca il futuro della nazione e, anche, di questa terra.

GdS, 4/11/2022

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