È morto sabato a 83 anni Quando uccisero La Torre, brandì l’arma “ Volevo fare secchi Lima e Ciancimino” Da sindaco di Carini demolì le ville abusive
In mezzo, tra la scelta di diventare comunista e l’avvio delle ruspe che avrebbero ripulito parte del lungomare, c’è una vita politica e c’è la storia di un dirigente di quelli che sapeva allevare il Pci e che, oggi, sarebbero la risposta muta quanto efficace ai tormenti della sinistra alla ricerca di ruolo e orizzonti: piedi ben piantati nella vita reale delle persone e testa pronta a intercettare i temi globali. C’è un’immagine che, più di altre, restituisce Nino Mannino. Trenta aprile del 1982, la mafia uccide il segretario siciliano del Pci Pio La Torre, la notizia piomba nella sede del partito in corso Calatafimi e quelli che sono lì vedono Mannino che prende la pistola dal cassetto della sua scrivania ( « Molti di noi comunisti giravamo armati sin dal 1974, quando si temeva il golpe » , racconterà) e la brandisce minaccioso. Gli immancabili avvelenatori di pozzi — interessati a rilanciare la fantomatica pista interna per l’omicidio dell’uomo che aveva condotto la lotta contro i missili a Comiso ma che si era anche battuto per far luce su alcune zone d’ombra all’interno del partito - dicono che cercasse « qualche compagno migliorista » . Lui la raccontava così: « Volevo andare a fare secchi Lima e Ciancimino, non qualche compagno migliorista come insinuarono alcuni».
Lima e Ciancimino li conosceva sin dal 1975, quando entrò in Consiglio comunale a Palermo in una tornata amministrativa nella quale il Partito comunista portò a Saladelle Lapidi, fra gli altri, Sciascia e Guttuso.
Conosceva Lima e Ciancimino e sapeva riconoscere cosa era mafia e cosa non lo era, così come sapeva distinguere l’antimafia dalla voglia di mettersi sul petto etichette e lustrini utili a far carriera. « Noi comunisti sapevamo riconoscere la mafia perché avevamo gli edili che sapevano chi erano i costruttori mafiosi e i contadini che sapevano chi erano i campieri » . E lui aquesta gente rispondeva: agli operai edili, ai metalmeccanici del Cantiere navale. Magari mutuandone i modi spicci e risoluti, quando serviva.
Mario Azzolini, comunista e giornalista Rai, racconta un episodio divenuto quasi leggendario nella chiacchiera para- politica: «Nel 1976 io ero segretario della Fgci e mi opponevo al compromesso storico. Avevo discussioni dialetticamente accese con Nino, che aquel tempo era segretario provinciale del partito. Un giorno Massimo D’Alema, allora leader nazionale della Federazione giovanile, mi chiama e mi racconta che Nino gli aveva chiesto — testuale — la mia testa. Figuratevi, D’Alema. Mi disse: “ Mario, io non comprendo, mi sembra un linguaggio mafioso”. A quel punto volli chiarire: “Massimo, Nino Mannino può avere modi poco urbani, ma stai certo che se c’è uno che combatte la mafia quello è lui”». Nel 1983 Nino Mannino venne eletto alla Camera e assegnato alla commissione Difesa ( e anche qui l’aneddotica su certi suoi imbarazzi da vecchio comunista che arriva dalla provincia siciliana davanti all’esuberanza della collega di commissione, la pornostar Cicciolina eletta con i Radicali, è copiosa e induce al sorriso) e restò parlamentare fino al 1992. Poi il suo mondo sparì. Il Partito per il quale aveva cambiato la sua vita non esisteva più, lui venne eletto sindaco di Carini per il Pds, ma quando dalla sigla scomparve anche la “s” di Sinistra, si tirò indietro. « Dal 2001 non ho più tessere di partito » , diceva. « Ho votato anche Pd, spesso turandomi il naso», aggiungeva.
Con la politica, però, era impossibile smettere. Grande e grosso, aiutandosi col bastone, guidò il Centro Pio La Torre non facendo mancare interventi, letture, spiegazioni delle fasi che attraversavano la sinistra — o ciò che ne era rimasto — e la Sicilia. Spiegazioni e letture lunghissime e irrinunciabili. Come la sua ruvida sapienza.
La Repubblica Palermo, 27/11/2022
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