di Vera Pegna
“Francesca Serio, la madre” è un libro avvincente: vale la pena leggerlo, possederlo e regalarlo anche se – ammetto – per me un motivo personale si è aggiunto al piacere della lettura. Si tratta del fatto che il Pci mi mandò a Caccamo – a tre chilometri da Sciara, il luogo dove si svolgono i fatti, pochi anni dopo l’assassinio di Salvatore Carnevale e mi trovai ad affrontare lo stesso capomafia, don Peppino Panzeca, il mandante degli assassinii narrati nel libro, nonché capo della commissione della mafia palermitana, altro che mafioso paesano e analfabeta. Più ci penso e più mi rammarico di non avere incontrato Francesca, tanto più che, mi disse Franco Blandi, sapeva di me, la “fimmina di Caccamo”.
Di assassinii il libro è pieno: Più di sessanta sono state le persone ammazzate nella zona di Caccamo e un’altra cinquantina i sindacalisti e gli attivisti di sinistra ammazzati in Sicilia per la loro attività in difesa dei lavoratori. Ѐ questo il contesto sociale e politico in cui si svolge la vita di Francesca Serio e di suo figlio Salvatore Carnevale: una vita povera, fatta di essenziale.
Francesca esce col buio e arriva in campagna col giorno, “adesso ritorno che è ancora giorno ma arriverò a casa che sarà buio”; lo stesso fa Turiddu che “non ha neanche un mulo o una bicicletta”. Con le foglie di borraggine che raccoglie lungo la trazzera, Francesca prepara la cena: frittelle di borraggine, formaggio, pane e vino. Ieri sera: un piatto di cicoria, formaggio, pane e vino. Ricorda la sua infanzia a Galati, quando “non c’era niente da mangiare” e il suo pensiero va a nonna Nina: “le cose povere che avevamo da mangiare, con le sue mani, sapeva farle diventare preziose”. L’ansia quotidiana della ricerca di cibo viene illustrata da immagini nitide e veritiere.
Da allora sono trascorsi sessant’anni e, a mano a mano che procedevo nella lettura del libro, scorrevano davanti ai miei occhi le persone che - nel bene o nel male - hanno segnato quegli anni della mia vita; ho ritrovato altresì le stesse struggenti delusioni patite da noi militanti di base rispetto al nostro partito (socialista quello di Carnevale, comunista quello mio e dei miei compagni) che puntano in modo irrefutabile alla continuità della logica che condusse alla débacle successiva dei partiti di sinistra: infatti, tranne rare eccezioni, i nostri dirigenti si dimostravano ben poco interessati alle lotte della loro base e assai più alle dinamiche dei vertici partitici. Lo dice lo stesso Salvatore al congresso socialista con parole inequivocabili che vengono ricordate al convegno organizzato dalla Camera del Lavoro di Palermo in occasione dell’anniversario della sua morte: “Ho la sensazione che io vivo fisicamente sul campo di battaglia e sento nella mia coscienza che in questa lotta contro la mafia, per il riscatto sociale dei lavoratori siamo soli, mancando una coscienza e una solidarietà nazionale”. Testimonianza tremenda che avrebbe dovuto mettere sull’attenti l’intera platea dei presenti ma che cadde nel nulla finché la mafia non decise di eliminarlo, lui Turiddu, già minacciato ripetutamente dagli sgherri di don Peppino. Era stato più volte avvertito:“Picca n’hai di sta malandrinarìa”; un altro, non meno esplicito, gli dice: “Talè, io ti voglio troppo bene, perché devi fare qualche mala morte? “Anche i compagni di Turiddu vengono minacciati: a Polizzi, un campiere della principessa Notarbartolo ricorda la fine che aveva fatto qualche mese prima un contadino: era stato ammazzato legato a un mulo e trascinato per la campagna.
Turiddu si fidava delle istituzioni e sosteneva che le minacce andavano denunciate ai carabinieri in quanto questi rappresentavano lo Stato anche se, da che parte stava lo Stato a Sciara,Turiddu ne era ben consapevole: i carabinieri - ospitati in una proprietà della principessa Notarbartolo - rifiutavano di verbalizzare le sue denunce, intimidivano i contadini che andavano a scioperare e il maresciallo di Termini andò fino a dirgli: “Sei il veleno dei lavoratori”.
Leggendo tali propositi, è riaffiorata nella mia mente la risposta che mi diede il maresciallo dei carabinieri di Caccamo quando gli chiesi di accompagnarmi sul feudo Ciaccio per dare manforte e legittimità ai mezzadri che chiedevano l’applicazione della legge sulla divisione dei prodotti: “Non ci vengo e dica a chi la manda che è un fetente”. Gli risposi che allora fetente era lui e me ne andai sbattendo la porta. Succedeva sette anni dopo l’assassinio di Turiddu.
Un comunista ha il dovere di studiare e lottare, mi aveva insegnato il segretario della Camera del Lavoro di Palma di Montechiaro, Angelo Scopelliti, prima ancora che mi iscrivessi al partito comunista. Spesso mi sono chiesta: a Turiddu Carnevale chi glielo insegnò? Eppure, ci dice Francesca che ogni sera lui leggeva il giornale e studiava, cercando nel dizionario il significato delle parole che non capiva e diceva che bisogna coinvolgere le persone, parlare con i contadini e spiegare che la legge è dalla loro parte e che i loro diritti devono essere difesi e tutelati. Anni dopo, nel processo contro i suoi assassini, il suo avvocato ricorda il suo ricorso esclusivo e pignolo ai mezzi legali.
Nel mettere in risalto queste espressioni, Franco Blandi coglie un aspetto spesso sottovalutato delle lotte di quegli anni: l’acquisizione della cultura del diritto, dei diritti da difendere sempre perché le conquiste democratiche non sono mai definitive. Salvatore Carnevale a Sciara, Filippo Intili a Caccamo e come loro chissà quanti altri, “li mangia picca cu’ lu sciatu ciusu” nella Sicilia degli anni ‘40 e ‘50 capirono che il diritto è un terreno della lotta di classe, e quindi ogni passo avanti, ogni singola conquista non solo apre la strada ad un altro diritto ma migliora l’intera società.
Anche a Caccamo la presa di coscienza politica e umana vissuta insieme ai miei compagni di partito, il legame profondo che si formò tra noi, coscienti di essere comunisti e finalmente fieri di poter camminare a testa alta, venivano alimentati dalle nostre conquiste intellettuali (a me sembrava di farne di più a Caccamo con i miei compagni, spesso analfabeti, di quante ne avessi fatte nei miei studi universitari), mentre per i miei compagni era la scoperta liberatoria di poter spaziare al di là delle miserie quotidiane, di investirsi di responsabilità collettive, di ragionare sulla mafia e sulle leggi a loro favorevoli e che non venivano applicate. Le leggi, appunto, quindi il diritto.
Uno dei pregi - e non il meno importante - del libro è rappresentato dal linguaggio usato dai protagonisti: lo vediamo articolarsi in registri diversi a seconda di chi parla e del contesto in cui si svolge il dialogo. Dalle parole usate da Francesca nel raccontare la sua vita rimane la vivida impressione di averle ascoltate anziché lette: l’uso che fa del dialetto fino all’assassinio del figlio Turiddu, quando lo trova riverso a terra coperto da un lenzuolo e lo riconosce grazie ai calzini che aveva lavato la vigilia, non lascia dubbi sull’autenticità dei fatti. Una scena lacerante, un atto di violenza estrema che catapulta Francesca in un ruolo nuovo: lei, contadina analfabeta, si erge al di sopra del suo quotidiano fatto di omertà e di paure e denuncia per nome i mafiosi che hanno ucciso suo figlio. Da quel momento in poi, tranne qualche dialogo con parenti e amici, Francesca si esprime in italiano e il passaggio dal dialetto all’italiano è un momento dirompente del libro in cui primeggia l’intransigenza di Francesca nel denunciare gli assassini del figlio; ed è lo stesso concetto e la medesima parola “intransigenza”, appunto, che sceglie Carlo Levi per descrivere Salvatore e la sua tenacia nell’andare avanti, noncurante delle minacce mafiose, e persino dell’assassinio cruento di Filippo Intili, il mezzadro comunista che era andato da lui pochi giorni prima per parlargli di uno sciopero di mezzadri che stava organizzando a Caccamo.
Bene fa Franco Blandi a ricordare che Ignazio Buttitta scrisse il suo ”Lamentu pi la morte di Turiddu Carnivali” subito dopo l’assassinio di Salvatore, una ballata emozionante che racconta la vita di Turiddu, la sua determinazione inflessibile nel combattere la mafia, l’amore e l’angoscia della madre Francesca. Il cantastorie Cicciu Busacca la portò in giro per i paesi suscitando ovunque una forte e commossa partecipazione del pubblico e fu per questa ragione che la piazza di Caccamo gli fu vietata da don Peppino Panzeca. Seguirono anni carichi di novità: l’affermazione del partito comunista, l’assenza del Panzeca costretto alla latitanza. Nel 1963, in occasione della chiusura della campagna elettorale regionale, invitammo Cicciu Busacca a cantare la ballata nella piazza di Caccamo, mantenendo segreta la sua venuta fino all’ultimo momento. Stavano scemando gli applausi al comizio del senatore Li Causi quando si levarono le note della chitarra del cantastorie. La piazza gremita ammutolì. “Veni lu jornu che scende lu messia: il socialismo, con le sue ali di manto, porta pane, pace e poesia” cantò Cicciu Busacca: il messaggio di fondo con il quale Turiddu incoraggiava i braccianti.
La ballata di Buttitta ebbe l’effetto di far conoscere Salvatore Carnevale e la sua storia dentro e fuori la Sicilia. Adesso il testimone passa a “Fancesca Serio, la madre”, la storia dell’eroina umile che seppe combattere i potenti.
Vera Pegna
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