Lino Buscemi
La città di Palermo, negli 85 anni di vita del Regno d’Italia (1861-1946), a differenza di altre località, ha dovuto subire anche violente e insensate azioni repressive, da parte dell’esercito sabaudo, che hanno provocato un numero notevole di morti e feriti tra la popolazione e ingenti danni all’economia e al patrimonio edilizio e culturale.
Lo Stato monarchico, in più occasioni, ha riservato ai palermitani che reclamavano diritti, lavoro e migliori condizioni di vita, un trattamento volutamente spietato che normalmente veniva applicato, in tempo di guerra, ai nemici. Nel corso di almeno tre sollevazioni popolari (rivolta del sette e mezzo del 1866, fasci siciliani dei lavoratori 1893-’94, strage per il pane del 1944), i governi di allora non rinunciarono a usare la mano pesante, ben consapevoli degli inevitabili risvolti negativi, tra i quali la dilatazione delle distanze fra cittadini e istituzioni e il conseguente affievolimento di ogni rapporto di fiducia e collaborazione. Per soffocare due rivolte venne addirittura proclamato, con decreto reale, lo stato d’assedio che comportò, a parte il cannoneggiamento indiscriminato della città, fuoco a volontà contro manifestanti inermi, esecuzioni sommarie, arresti di massa, processi farlocchi.
Quello che però avvenne 78 anni fa in via Maqueda, ancora oggi, ha dell’inverosimile. Il 19 ottobre 1944, in una città devastata dai bombardamenti e prostrata dalla fame, il malcontento della gente era alle stelle. Uno spontaneo corteo di manifestanti, senza capi e bandiere, ingrossatosi grazie all’afflusso di ragazzi e donne disperate provenienti dai mercati di Ballarò e Vucciria, si mosse da piazza Pretoria per dirigersi a palazzo Comitini sede della prefettura e dell’Alto commissariato per la Sicilia per chiedere «pane e pasta per tutti» e anche salari adeguati. I più esagitati brandivano rudimentali randelli. Altri battevano con sassi le saracinesche dei negozi per far rumore. La protesta si fece più incandescente quando la folla apprese che le autorità erano fuori sede. I pochi carabinieri e poliziotti che stazionavano nel palazzo chiusero, per sicurezza, il possente portone d’ingresso, mentre il vice prefetto, invece di sedare gli animi, si affrettò a telefonare al comando militare per chiedere rinforzi. La richiesta venne accolta dai responsabili della divisione Sabauda e Aosta s.i (al cui vertice c’era il generale Giuseppe Castellano, colui che l’8 settembre del ’43 firmò per l’Italia l’armistizio con gli anglo-americani) che inviarono in via Maqueda 50 soldati (tutti sardi), del 139° fanteria, comandati dal giovane tenente Calogero Lo Sardo, armati ciascuno di fucile, cartucce e bombe a mano. Giunti sul posto, con due autocarri, quasi tutti i soldati, senza alcuna provocazione, all’improvviso cominciarono a sparare e a tirare bombe a mano a destra e a manca. Tragico il bilancio: 24 morti e 158 feriti in prevalenza ragazzi. Sicuramente i militari ubbidirono ad un preciso assurdo ordine, forse premeditato. Si agì con ferocia e crudeltà, come hanno sempre sostenuto gli ultimi due feriti ancora viventi, allora ragazzini, il quasi novantenne Gaetano Balistreri e l’ottantasettenne Giovanni Ficarotta. Da notare, come risulta da accurate verifiche, che fra i soldati non ci fu nessun morto e nessun ferito grave. Sulla Strage per il pane, così fu denominata dal popolo, scese subito il silenzio più assoluto. Interrotto solo in coincidenza dello svolgimento del processo-farsa che si tenne il 22 febbraio 1947 presso il tribunale militare di Taranto. I mandanti non sono stati mai individuati e i pochi soldati, esecutori materiali, portati alla sbarra la fecero franca «per essere i delitti estinti per amnistia». Poi non se ne parlo più. A parte poche lodevoli inchieste giornalistiche e qualche monografia, la strage è scarsamente citata nei libri di storia e non è ricordata nella toponomastica cittadina. Una carneficina, dunque. Voluta da chi e perché? Ecco la domanda alla quale dopo decenni non si è nemmeno tentato, da parte delle istituzioni, di dare una risposta. Si è ancora fermi a sospetti e congetture formulate a caldo da più settori. Qualcuno, poi smentito dai fatti, sostenne che quella del 19 ottobre fu una provocatoria azione separatista. I partiti antifascisti e repubblicani, parlarono, invece, di «piombo sabaudo» riversando la colpa dell’accaduto sui monarchici e sui generali di casa Savoia. È certo che le autorità civili si preoccuparono di mettere tutto a tacere e in fretta, accettando persino i tagli apportati dalla censura militare alleata alla cronaca dei luttuosi incidenti che i pochi giornali liberi avrebbero voluto pubblicare integralmente. Nei palazzi del potere vi era un clima assai conflittuale e non pochi agirono con l’intento di assicurarsi porzioni di potere. Erano in ballo colossali interessi ivi compreso il destino politico-istituzionale della Sicilia. Molti figure o figuri agivano con cinismo e sfruttavano ogni occasione per mettersi in mostra e guadagnare meriti. Passate poche settimane dalla terribile strage, il generale Castellano fu rimosso dall’incarico di comandante di divisione dell’esercito. Secondo il sottosegretario di Stato all’Educazione Bernardo Mattarella, padre del presidente della Repubblica in carica, il generale fu sollevato dall’incarico per due motivi: «Ha fallito nel ricondurre alla disciplina gli ufficiali e le truppe alle sue dipendenze e ha frequentato circoli separatisti». Ce n’è quanto basta per avviare una seria indagine, in sede storica, parlamentare e giurisdizionale competente, con il solo scopo di accertare la verità. Occorre, come ancora chiedono in molti, rendere giustizia alle innocenti vittime che, con il loro sacrificio, hanno scritto una significativa pagina della lunga e sfortunata storia siciliana.
GdS, 18/10/22
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