Giorgio Gosetti
ROMA - Oggi raggiunge il traguardo dei 70 anni il «fool» scespiriano della scena italiana: Roberto Benigni, figlio di contadini, ultimo di quatto figli dall’amore dei genitori Luigi e Isolina, nato a Manciano La Misericordia nell’Aretino, cresciuto a Prato e diventato star mondiale in palcoscenico e al cinema, compie 70 anni ma non li dimostra, non li sente e li lascia volentieri nell’oblio.
Perché Roberto (come lo chiamò trionfante Sophia Loren la sera dell’acclamazione agli Oscar nel 1999) è l’icona di se stesso, una maschera della commedia dell’arte dietro cui si nasconde un uomo timido e sorridente, un Pinocchio sempreverde che conserva la saggezza contadina dell’artista che lo ha scolpito, Geppetto. Non a caso al personaggio di Collodi ha legato due volte la sua carriera, prima come «one-man-band» nel suo film del 2002 e poi come attore al servizio di Matteo Garrone nell’adattamento del 2019 (Nastro d’argento come Geppetto).
Per evitare che la festa del compleanno si trasformi in celebrazione encomiastica, Benigni ha schivato ogni occasione pubblica e anche alla mostra delle foto di Mimmo Cattarinich a lui dedicata dalla Casa del Cinema è apparso in forma privatissima, quasi più per ricordare un amico scomparso che non per rivedersi negli scatti catturati durante oltre 15 anni di sodalizio. Ma per tutto il cinema italiano l’appuntamento di oggi resta l’occasione per dire grazie a questo straordinario interprete della cultura e dello spettacolo, un cantastorie capace di «rimare» all’impronta come si faceva un tempo sull’aia (memorabile un certame con Umberto Eco e Francesco Guccini a Gradara nel 1996) e di recitare Dante o gli articoli della Costituzione con la stessa elegante disinvoltura.
Dell’artista ha sempre conservato la modestia e la duttilità, dell’attore la passione per la sfida a se stesso, dell’uomo di spettacolo le doti di improvvisazione. Sicché risulta impossibile inquadrarlo in un solo schema e seguirne la carriera e l’evoluzione con parametri consueti: bisogna abbandonarsi al suo estro, lasciarsi sorprendere ogni volta, così come accadrà da oggi in poi quando il folletto sentirà il bisogno di reinventarsi una volta di più. Come del resto ha sempre fatto.
Debutta nel ‘71 al Metastasio di Prato come cantante e musicista ne «Il re nudo» diretto da Paolo Magelli; Carlo Monni e soprattutto Marco Messeri lo «tengono a battesimo» in vari spettacoli d’avanguardia a metà fra il teatro di strada e l’invenzione comica. Sbarcato a Roma in compagnia di Messeri, Roberto Benigni incontra nel ‘75 Giuseppe Bertolucci che scrive per lui il monologo di «Cioni Mario» diventato in breve lo spettacolo di punta del teatro Alberico, punto di riferimento della scena off romana. Frammenti di quell’esperienza finiscono nel programma tv «Onda libera» alias «Televacca», avversato dalla censura come del resto il suo primo exploit al cinema (sempre per mano di Giuseppe Bertolucci), «Berlinguer ti voglio bene» del ’77. Nonostante le scoperte simpatie per la sinistra (a un raduno del giovani comunisti nel 1983 prese in braccio il segretario Berlinguer, creando scompiglio) ma anche simpatia per sé e il suo bersaglio.
Di fatto la critica e i circoli intellettuali non lo hanno mai accettato fino in fondo, avvertendo il pericolo della sua satira irriverente, della sua comicità popolare e immediata, del suo voler sempre scrivere lontano dalle regole. Diversa invece la reazione del pubblico, ogni volta più calda. Fu così in teatro con lo spettacolo a sketch «Tuttobenigni»; in tv con le irruzioni al festival di Sanremo e a Fantastico (auspice Pippo Baudo), tra piccolo e grande schermo nel sodalizio con Renzo Arbore tra «L’altra domenica» e «Il Pap’occhio» (a lungo censurato).
Aspetta il 1983 per misurarsi con l’altra parte del set e la regia di se stesso. Debutta in punta di piedi con un film a episodi, «Tu mi turbi» nella più limpida tradizione del cinema comico all’italiana. Ma dietro uno stile sobrio, quasi trasparente, di regia nasconde ambizioni più alte. Con la complicità dell’amico Bertolucci scrive per sé e Massimo Troisi «Non ci resta che piangere» (1984) un «buddy buddy» a spasso nel tempo che frantuma ogni record d’incasso. Poi scappa dal suo successo e sbarca in America per farsi dirigere dall’amico Jim Jarmush con cui firma «Daunbailò» nel 1986, seguito da altri due lavori in cinque anni. Accetta di misurarsi col mito di Peter Sellers ne «Il figlio della pantera rosa» (1993) e torna in patria con un diverso carisma, da attore e regista di culto.
Dal 1988 lo ha adottato Vincenzo Cerami, scuola pasoliniana e gusto dell’eccesso elegante. I due collaboreranno per sei volte dando vita a un formidabile sodalizio umano e artistico arricchito da Nicoletta Braschi, fondatrice insieme a Roberto ed Elda Ferri della casa di produzione Melampo, attrice-icona dell’uomo che diventa suo marito nel 1991. Insieme passeranno di successo in successo da «Il piccolo diavolo» a «Johnny Stecchino», da «Il mostro» fino al trionfo – pur controverso – di «La vita è bella» che vince l’Oscar per il miglior film straniero ma regala a Roberto anche la statuetta come miglior attore.
Seguiranno «Pinocchio» e «La tigre e la neve», ma nell’intervallo c’è spazio per la collaborazione con Federico Fellini (e Paolo Villaggio) in «La voce della luna» (1990).
Negli ultimi anni il connubio con Dante e la Commedia ha portato Roberto Benigni su altri lidi, lontano dal cinema. Ma domani?
GdS, 27/10/2022
Nessun commento:
Posta un commento