di Caterina Ruggi d’Aragona
Achille Occhetto ed Aureliana Alberici |
Dalla barca a vela ormeggiata al largo di Capalbio al posto in spiaggia al Bagno delle Donne, a Talamone: le estati di Achille Occhetto sono tra l’Argentario e la Maremma. L’ultimo segretario del Partito Comunista italiano, il primo del Partito Democratico di Sinistra, ha stabilito in quell’angolo di Paradiso il suo buen retiro.
Da luglio a settembre (che sia per un fine settimana o per un periodo più lungo di vacanza), il politico torinese si rintana tra la campagna grossetana e gli scogli dell’Uccellina. Assieme a sua moglie, Aureliana Alberici, con la quale ha condiviso 43 anni di vita, di lotte e di passioni.
Il polverone sollevato dal bacio che i due si scambiarono a Capalbio nell’estate dell’’88 (erano allora sposati da 3 anni, insieme da 9, e ci fu chi lo considerò scandaloso, chi narcisistico, chi rivoluzionario) è tanto distante dalla tenerezza trasmessa oggi dalla coppia che, all’anagrafe, ha un totale di 167 anni, ma lo spirito di due ragazzini innamorati. Appartati — tra l’ora abbondante di nuotate quotidiane tra gli scogli, il veloce pranzo al baretto della spiaggia e il pisolino sotto l’ombrellone. Silenziosi, riflessivi e spontanei. Come il commento di lei alla chiassosa tavolata che festeggia un addio al nubilato: «Che bello! Se potessi, io mi risposerei altre cento volte; sempre con lo stesso uomo». «Questo è un successo — risponde lui — non so come l’ho raggiunto».
La vostra immagine privata è associata a Capalbio. Ma l’avete tradita con Talamone..
«Abbiamo lasciato Capalbio nel ’93, poco prima che quel paese in cui villeggiavamo in pochi, con un bel porticciolo che attraeva noi velisti, diventasse mondano. Prendemmo un casale tra boschi e vigneti, vicino a Montiano (frazione di Magliano), a 24 km dal mare: da allora trascorriamo molto tempo in campagna. Dall’età di 81 anni ho abdicato dalla barca in favore di mio figlio e, quando ancora non ci andava nessuno, ho scoperto il Bagno delle Donne, uno stabilimento piuttosto scomodo, che non attrae grandi masse. Amo tuffarmi in questa caletta sovrastata dalla rocca e nuotare con le pinne tra gli scogli, disturbato solo dai pescetti che danno morsetti alle caviglie, mentre ho in lontananza l’Amiata, il Giglio, la Corsica. Questo angolo è diventato il mio mondo marino».
Nostalgia di quando era capitano?
«Quando non si può più comandare come ho fatto io, tra le onde spinte dal vento a diversi nodi, bisogna capire che è arrivato il momento di cedere il timone».
Facciamo qualche passo indietro, all’estate del 1950 a Forte dei Marmi…
«La mia famiglia ospitò Cesare Pavese. Lui mi correggeva i compiti di latino, come un gioco. Non potevo immaginare che un mese dopo si sarebbe suicidato. Era molto appartato, di poche parole, ma di grande gentilezza. Prima di andare via lasciò nel nostro libro degli ospiti una cartolina in cui ci ringraziava e ci augurava buona vita: era un addio!».
Fin da bambino è stato abituato ad avere in casa grandi intellettuali…
«Mio padre, amministratore delegato di Einaudi, accoglieva spesso Giulio Bollati e tanti intellettuali. Ricordo Italo Calvino, un gran giocherellone, che passava ore a raccontare a mia madre pettegolezzi ed episodi minuti».
Quell’ambiente ha influenzato la sua formazione?
«Più delle villeggiature al Forte è stata decisiva la casa torinese, che durante la Resistenza era stata la sede clandestina della sinistra cristiana: di notte vedevo arrivare partigiani cattolici, comunisti e socialisti».
A Livorno, nel 1921, era nato il Partito Comunista, del cui scioglimento lei è ritenuto responsabile…
«Si parla della svolta della Bolognina in modo inappropriato. Non si è colto che quella svolta non ha fatto i conti solo con la storia del comunismo, ma con il cambiamento della storia mondiale. I fatti ci hanno dato ragione: niente è stato più come prima».
E le sue famose lacrime?
«Dopo le conclusioni di un Congresso combattutissimo avevo avuto una standing ovation quasi interminabile; Ingrao, che era stato mio competitor, si alzò e mi strinse la mano: mi commossi perché capii che era finita la grande tensione. Ma quelle lacrime non furono sprecate, i contrasti interni continuarono».
Qualche pentimento?
«Io ho un criterio: mai ripensare alle cose che faccio; considero il pentimento un sentimento sciocco e piagnucoloso. Meglio valutare cambiamenti».
Cosa cambierebbe oggi?
«Sarebbero troppe le cose da cambiare. Comincerei dal riportare lo scontro politico sulla battaglia delle idee, con partiti che portino avanti visioni alternative del mondo, dell’Europa. Invece, stiamo vivendo una situazione confusa: l’emergenza sanitaria ci ha costretti a un’alleanza innaturale tra forze totalmente diverse».
Intravede segnali di speranza?
«Solo nei giovanissimi che seguono il messaggio di Greta Thunberg. Quella ragazza non dice “Ascoltate me”, ma invita i potenti della Terra ad ascoltare gli scienziati. Se fossimo stati capaci di ascoltarli non dovremmo fronteggiare “vecchie” guerre, non avremmo il problema della sicurezza delle frontiere, della vegetazione, della Terra… Siamo in ritardo».
Il suo ultimo libro, pubblicato quest’anno, s’intitola Perché non basta dirsi democratici. Ecosocialismo e giustizia sociale.
«Non basta dirsi democratici. C’è bisogno di un nuovo mondialismo pacifistico che sappia coordinare scienza e tecnologia per fronteggiare le contraddizioni del nostro tempo, a cominciare dalla questione ambientale. La transizione ecologica non è una passeggiata; bisogna affrontarla, nonostante i costi sociali».
Teme la terza guerra mondiale?
«Mi fa paura la grande confusione da cui può nascere qualcosa di grave. Putin ci ha fatto capire che vuole destabilizzare l’Occidente e ricostruire un nuovo ordine mondiale. Dobbiamo rispondere con la mossa del cavallo: noi vogliamo un ordine che non si costruisca con le baionette e violando trattati internazionali, ma ridiscutendo la sicurezza mondiale, superando gli errori del passato».
Ha fiducia nei giovani…
«Quando è stata sollecitata a partecipare alla risoluzione dei problemi, la nuova generazione ha saputo muoversi su due terreni: l’ambiente e il razzismo. Questo fa ben sperare nel futuro. Purtroppo, non esiste una seria politica di formazione al lavoro: i giovani sono spaesati, si trovano a dover scegliere un lavoro che non vorrebbero fare. La scuola è ancora poco inclusiva, poco rispettosa dell’art. 3 della nostra Costituzione (il migliore), che richiede di eliminare le differenze che ostacolino una corsa alla pari per la vita».
I suoi figli (Massimiliano e Malcom, 52 e 50 anni, nati dal primo matrimonio) le rimproverano qualcosa?
«Credo di essere un papà simpatico. Ci riuniamo spesso nel casale in Maremma».
Corriere della sera, 22 agosto 2022
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