Pasquale Scimeca
Intervista al regista che a giorni inizierà le riprese
di IRENE CARMINA
«Quante stragi si sarebbero potuto evitare se il processo di Bari del ’69, istruito dal giudice Cesare Terranova, non si fosse concluso con l’assoluzione?». Se lo domanda il regista Pasquale Scimeca che a giorni inizierà le riprese del film “Il giudice T.” sul magistrato che per primo portò a processo i corleonesi.
Liggio, Provenzano, Riina, aveva osato sfidarli tutti. Un affronto che gli costò carissimo. Trenta pallottole, mentre era a bordo di una fiat 131, insieme al maresciallo Lenin Mancuso, anche lui morto in ospedale dopo essere rimasto ferito nell’agguato.
È per questo che ha deciso di fare un film sul giudice Terranova?
«Le commemorazioni da sole servono a poco. Si fanno tanti bei discorsi, si depositano i fiori, ma poi tutto finisce lì. Il vero senso della lotta culturale alla mafia è instillare la conoscenza. È per questo che ho voluto fare un film sul giudice Terranova: per farlo rivivere, per dare una visione ai giovani».
Cosa sanno i giovani?
«Poco, ma hanno la mente aperta per captare i messaggi. È stato così con il mio film su Placido Rizzotto e con altri film come i Cento passi, pellicole importanti per intere generazioni che hanno acquistato consapevolezza del vero significato della lotta alla mafia. E sul giudice Terranova questo lavoro va fatto».
Terranova fu uno dei primi a pagare con la vita il suo impegno contro la mafia, aprendo di fatto l’epoca delle stragi, eppure di lui si parla poco. Perché secondo lei?
«La storia del giudice Terranova è l’anello mancante della narrazione della lotta alla mafia. Nella produzione cinematografica e letteraria c’è come un buco nero, un salto temporale tra l’antimafia sociale dell’immediato dopoguerra con le lotte contadine contro la mafia dei feudi e l’antimafia così come siamo abituati a conoscerla a partire dagli anni Ottanta fino a Falcone e Borsellino».
Vuole colmare questo vuoto?
«Intendo riempirlo di conoscenza, raccontando i fatti dal dopoguerra fino al ’79, perché solo conoscendo questi si può comprendere il lavoro degli eroi antimafia che ci sono stati dopo».
Terranova ha fatto scuola?
«Letteralmente con Borsellino, che iniziò come uditore nella sua stanza. Lo considero il precursore di Falcone e Borsellino: non avrebbero fatto quello che hanno fatto nel modo in cui l’hanno fatto se non avessero avuto alle spalle la metodologia e la visione di Terranova. Fu il primo a fare un maxiprocesso, a concepire la mafia come organizzazione piramidale e a intuirne le connessioni con la politica. Ma tra Falcone e Borsellino e Terranova c’era una differenza».
Quale?
«Terranova era isolato. Per questo accettò di andare in Parlamento: non c’erano le leggi sull’associazione mafiosa e sulla confisca dei beni e lui voleva crearle. Non gli interessava la carriera politica, tant’è vero che rifiutò la candidatura al Parlamento europeo per tornare a fare il magistrato. Fu la sua condanna a morte e quella del maresciallo Mancuso, l’unico che non lo lasciò solo, affiancandolo nelle indagini per vent’anni».
Spesso si parla di Lenin Mancuso come il guardaspalle di Terranova, non lo trova riduttivo?
«Mancuso va rivalutato completamente.
Era un poliziotto moderno, un po’ come sarebbe stato poi Cassarà.
Non è un caso che li abbiano uccisi insieme.
Avrebbero potuto assassinare Terranova quando era in vacanza nella sua villa a Scillato, dove non c’era neanche la caserma dei carabinieri, ma hanno scelto di farlo in modo eclatante, colpendoli di mattina, in pieno centro a Palermo».
Si ricorda quel giorno?
«Fu come se avessero ucciso uno che abitava nel mio palazzo, Terranova era un madonita come me. Capii che le cose stavano cambiando».
Cos’è rimasto di quegli anni bui?
«Niente, c’è un vuoto totale nelle coscienze. Non perché non esista più la mafia, che ha solo cambiato forma, ma perché c’è solo tanta retorica e poca sostanza».
La Repubblica Palermo, 24/9/2022
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