di PASQUALE HAMEL
Si diceva che Galvano Della Volpe, filosofo di radici idealiste che aveva sposato il marxismo, lo considerasse il suo migliore allievo certo è che Pancrazio De Pasquale, di cui lunedì scorso ricorreva il trentesimo anniversario dalla morte, nonostante l’impegno politico che l’assorbiva in modo totale, rimase sempre un intellettuale geloso della sua autonomia personale.
La sua vocazione politica matura proprio in università nel clima agitato del primissimo dopoguerra siciliano, ed è passione forte che lo vede abbandonare temporaneamente gli studi per confrontarsi con i grandi problemi delle diseguaglianze, della democrazia, della lotta di classe. Non è un caso che poco più che ventenne assuma l’incarico di segretario della Federazione comunista di Palermo e che, nello stesso tempo, s’intesti la promozione e la direzione di periodici giovanili nei quali accanto ai tradizionali temi della sinistra si aggiungono richiami allo specifico del sottosviluppo siciliano e alle ragioni culturali dello stesso.
L’autonomia con cui si muove nello spazio esterno ed interno al partito non potevano però che destare sospetti in un soggetto politico monolitico come il Pci, rigorosamente centralistico che, peraltro, in Sicilia scontava alcuni vincoli storici. Da qui lo scontro aperto con il mitico Girolamo Li Causi, plenipotenziario di Togliatti il quale mal digeriva l’accusa di De Pasquale, di puntare ad «un partito stancamente parlamentarista, impegnato più nelle manovre burocratiche che nelle mutazioni sociali».Dallo scontro, divenuto caso nazionale, in un tempo in cui lo stalinismo era riferimento forte, il giovane De Pasquale, bollato come sponente della piccola borghesia culturalmente lontana al leninismo, non poteva che riuscire soccombente. Li Causi ne uscì, infatti, trionfalmente vincitore e il suo antagonista, per decisione del partito dovette lasciare la Sicilia. Massimo Ganci, che in quegli anni faceva parte di quei giovani intellettuali che si erano ritrovati attorno a De Pasquale, scrive a questo proposito che non ci fu in lui alcun atto di ribellione ma «disciplinatamente accettò le decisioni del partito; senza elevare alcuna protesta raggiunse le sedi dove venne inviato». L’esilio non durò molto, tornò infatti in Sicilia con l’incarico di segretario della Federazione di Messina, ma servì a fargli capire che nel PCI lo spazio di autonomia non era poi tanto e che la nomenklatura non andava mai messa in discussione. Negli anni che seguirono non ci furono episodi degni di nota, se non lo sforzo di sostanziare di contenuti culturali la funzione che il partito gli aveva assegnata. Il premio per questa sua obbedienza e remissività fu l’elezione, nel 1958, al Parlamento nazionale. A Roma svolse con puntiglio gli incarichi assegnati e si fece anche apprezzare per le capacità di direzione politica. Non è casuale il fatto che nel 1967 gli venisse chiesto di candidarsi all’Assemblea regionale siciliana. Dietro quell’indicazione ci stavano peraltro motivi pratici ch’erano sotto gli occhi di tutti.
Si era infatti registrato nel gruppo comunista un evidente rilassamento rispetto alle grandi questioni e la presenza sempre più imbarazzante di interessi personali. De Pasquale, veniva inviato a Palermo per moralizzare e per guidare il gruppo parlamentare in un passaggio estremamente delicata di cambiamento della liea politica. Proprio in questa fase, insieme al democristiano Nino Lombardo, affronta la battaglia contro il voto segreto sul bilancio, strumento di cui si erano serviti molti parlamentari – ivi compresi alcuni comunisti - per ricattare il governo della Regione. Una battaglia di moralizzazione che lo legittima quale riferimento alto per la successiva felice stagione della solidarietà autonomistica di cui fu uno dei protagonisti più impegnati e, nello stesso tempo, più autorevoli. L’equilibrio e l’autorevolezza lo portano, nel 1976 ad essere eletto, primo comunista ad assumere una così alta carica istituzionale, alla presidenza dell’Assemblea regionale siciliana e proprio nel corso della sua presidenza si succedono le presidenze di Angelo Bonfiglio e Piersanti Mattarella, personaggi di altissimo profilo impegnati nel progetto di rinnovamento e di rilancio dell’Autonomia regionale siciliana.
Un progetto di rinnovamento che subisce una pesante battuta d’arresto quando il PCI, nel febbraio del 1979, decide di ritirare la fiducia al primo governo Mattarella. Proprio in quei giorni, sicuramente su pressione del partito, si conclude anche la presidenza all’ARS di De Pasquale e per lui si apre una nuova stagione con l’elezione nel giugno del 1979 al parlamento europeo. Dentro quelle dimissioni e l’allontanamento dal Paese appare chiara – ed è peraltro evidenziata in una pagina del suo diario - la ostilità che il gruppo dirigente del partito mostra nei suoi confronti. Emblematica è, a questo proposito, una sua notazione dell’ottobre del 1987 nella quale scrive: «lo stalinismo e il burocraticismo politico, abiti stinti e lisi del PCI, ma non dismessi».
Le critiche sottili riguardano anche il defunto e sacralizzato Berlinguer. La rottura definitiva alla fine di giugno del ’91 quando lascia il partito per confluire, lui «migliorista in Rifondazione comunista» e giustifica questa contraddizione dichiarando di volere, in questo modo, «contribuire a tenere aperta una prospettiva ideale e politica di liberazione umana e sociale». Ma in lui prevale la delusione, il disincanto. La morte lo coglie a pochi giorni dal suo ritorno fra i banchi di Montecitorio.
GdS, 28/9/2022
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