Il capitano CC Daniele Giovagnoli
di VINCENZO R. SPAGNOLO
«Quando ho appreso di esser stato destinato a Corleone, mi trovavo a Parma. La prima cosa che ho fatto, subito dopo, è stato visitare la tomba del generale Dalla Chiesa. È stata una cosa decisa lì per lì, ma mi ha emozionato, è stato un viatico per ciò che sarei andato a fare...».
Da un anno il capitano Daniele Giovagnoli, 31enne fiorentino, comanda la compagnia dei Carabinieri di Corleone. E nel suo ufficio, c’è più di una foto a testimoniare gli anni in cui, in quelle stanze, si muoveva, investigava e tirava il fiato un altro capitano come lui, quasi suo coetaneo, il 29enne Carlo Alberto Dalla Chiesa.
Il capitano Carlo Alberto Dalla Chiesa nel 1949 a Corleone |
Correva il 1949 quando il giovane ufficiale piemontese veniva destinato al comando del gruppo squadriglie di stanza nel borgo collinare siciliano. Mario Puzo non ne aveva ancora immortalato il toponimo, con la saga del Padrino. E i viddani Totò Riina e Binnu Provenzano, quasi ventenni, non avevano ancora progettato la loro sanguinaria scalata a cosa nostra. Ma fra quelle viuzze già si aggiravano il boss Michele Navarra e l’astro nascente Luciano Liggio, che proprio Dalla Chiesa indagò per l’omicidio del sindacalista Placido Rizzotto. Anni in cui il capitano piemontese, con acume e determinazione, si distinse nella “lettura” del fenomeno mafioso, all’epoca carsico e oscuro, fino ad affascinare lo scrittore racalmutese Leonardo Sciascia, che s’ispirò a lui per il personaggio del capitano Bellodi nel Giorno della civetta.
Quell’impegno, quella dedizione costituiscono un’eredità e un monito per i militari dell’Arma: «Il primo pensiero di ogni carabiniere, quando arriva a Corleone, va a Dalla Chiesa – racconta Giovagnoli –. Capisco che possa suonare retorico, ma per noi non lo è affatto, glielo garantisco... Perché se questi posti sono cambiati in meglio, se fra queste strade e in queste campagne il contrasto alla mafia ha gettato semi di riscatto e legalità, è anche merito dello straordinario lascito etico e professionale della sua esistenza...». Insegnamenti che il capitano Giovagnoli non considera sorpassati. Tutt’altro: «Corleone, come realtà, va affrontata ancora oggi con lo stesso approccio prediletto da Dalla Chiesa, ossia col dialogo. Osservare, ascoltare le persone, come lui faceva sia coi cittadini corleonesi che coi propri uomini, è la prima cosa. Se c’è ascolto, se c’è dialogo, il 90% del nostro lavoro si può realizzare. E poi non siamo soli, ci sono il commissariato di Polizia e la tenenza della Guardia di Finanza, che sta in una casa confiscata a Riina. Lavoriamo in sinergia... ». Nel merito delle indagini quotidiane, come ogni investigatore che si rispetti, l’ufficiale non entra. Ma la fotografia che le sue parole scattano della Corleone odierna è ben diversa dalla “culla” di picciotti di settant’anni fa: «Molto diversa. Oggi qui si può issare la bandiera della legalità – argomenta Giovagnoli –. E forse sarebbe tempo di mettere in soffitta quell’immagine datata. Se anni fa qui le forze dell’ordine venivano guardate di sbieco, ora noi e gli altri tutori della legge veniamo accolti dovunque con cordialità». La coltre d’omertà che proteggeva i padrini si è sollevata? «Non è più così fitta. Nelle scuole, dove mi invitano a parlare, i ragazzi sono i primi a voler riscattare, con impegni concreti sul fronte della legalità, il peso del passato. A settembre, per le celebrazioni della nascita del generale, la comunità si è impegnata direttamente, insieme a noi dell’Arma e alle istituzioni». E i mafiosi? Sono andati via? «Non del tutto, qualcuno c’è, ma il loro potere non è più pervasivo come un tempo. Sono tornati alla terra, alle campagne, e in queste contrade spesso la loro presenza la avvertiamo nelle ingerenze o prepotenze legate alla gestione di qualche latifondo. Ma è una minoranza. Il desiderio di legalità e di riscatto della maggioranza, soprattutto dei giovani, è predominante». In una delle vecchie foto “corleonesi”, il generale ha una posa più rilassata, una mano in tasca e l’altra a stringere una sigaretta, con l’accenno a un sorriso. «Era un uomo straordinario», ricorda il generale di corpo d’armata in quiescenza Libero Lo Sardo, una vita nell’Arma e attuale presidente dell’Associazione nazionale carabinieri, anche lui a Palermo per le celebrazioni: «Lo conobbi a inizio anni Settanta. Avevo 25 anni e comandavo la tenenza di Sestri Levante. Il generale fece una visita senza preavviso alla vigilia di Natale. Poteva apparire severo, ma era sempre vicino agli uomini, ascoltava e incoraggiava». Quarant’anni dopo la sua scomparsa, qual è la sua eredità, per l’Arma e per il Paese? «L’onestà, l’etica. E un amore infinito per i nostri alamari».
avvenire.it, 4/9/2022
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