La Repubblica Palermo, 21/9/2022 Virginio Rognoni, morto ieri a 98 anni, accanto a Carlo Alberto Dalla Chiesa (foto Fondazione Gramsci) |
di FABRIZIO LENTINI
Piersanti Mattarella gli chiese aiuto contro Ciancimino e lui non capì. Gli appelli a vuoto di Dalla Chiesa. La norma sul sequestro dei beni ai boss pensata da Pio La Torre
Terreo, sguardo basso dietro gli occhiali spessi: molti palermitani lo ricordano così, Virginio Rognoni, morto ieri a 98 anni: seduto su una panca della basilica di San Domenico, il 4 settembre 1982, mentre di fronte a lui e a Pertini, davanti alle bare di Dalla Chiesa e della moglie, il cardinale Pappalardo scagliava il suo più celebre anatema: «Mentre a Roma si discute, Palermo viene espugnata».
Quanti funerali eccellenti, da Boris Giuliano a Cesare Terranova, da Emanuele Basile a Pio La Torre: Palermo fu una via crucis per Rognoni ministro dell’Interno, negli anni di piombo dell’Italia insanguinata dalla mafia e dal terrorismo. Gli anni della ferocia e dei sospetti, dello Stato messo sotto accusa per i suoi silenzi, le sue omissioni, le sue complicità. Rognoni, democristiano pavese serio e introverso, era il volto delle istituzioni costernate e impotenti, della Prima Repubblica trafitta da Kalashnikov e P38 e tenuta in piedi da uomini simbolo e gente comune, padri della patria e operai coraggiosi, eroi per scelta o per caso.Rognoni è il ministro che manda Dalla Chiesa a Palermo come prefetto ma non gli dà i poteri di alto commissario che reclamava. Ed è il ministro che accoglie l’ultimo accorato appello del presidente della Regione Piersanti Mattarella, che alla fine di ottobre del 1979 vola a Roma per confidargli che si sente in pericolo, minacciato dall’interno del suo stesso partito, guardato con diffidenza nella sua opera di moralizzazione.
Rientrato a Palermo, Mattarella convoca subito la fidatissima Maria Trizzino, suo capo di gabinetto, e le consegna il più cupo dei testamenti: «Le sto dicendo una cosa che non dirò né a mia moglie né a mio fratello. Questa mattina sono stato con il ministro Rognoni e ho avuto con lui un colloquio riservato su problemi siciliani. Se dovesse succedermi qualche cosa di molto grave per la mia persona, si ricordi questo incontro con il ministro Rognoni, perché a questo incontro è da collegare quanto di grave mi potrà accadere».
Una profezia raggelante, che resta un segreto per pochi mesi, fin quando il “killer dagli occhi di ghiaccio” non massacra Mattarella, senza scorta, davanti a moglie e figli. Quando Maria Trizzino rivela quella confidenza ai magistrati, l’incontro al Viminale diventa uno dei cardini del “contesto” in cui era maturata la condanna a morte del presidente della “ Regione dalle carte in regola”. Rognoni racconta al giudice istruttore che Mattarella, «in relazione ad alcune notizie secondo le quali l’ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino avrebbe premuto per ottenere un reinserimento a un livello di piena utilizzazione politica all’interno del partito della Democrazia cristiana, ebbe a manifestarmi grande preoccupazione per un evento del genere e il suo vivo dissenso al riguardo». Era questo che induceva Mattarella a temere per la sua vita? O qualcos’altro che Rognoni non ricordò o non capì? È uno dei tanti misteri degli anni di piombo siciliani. Di sicuro, Rognoni — come Cossiga per la fine dell’amico Moro — porterà sempre su di sé il peso di quelle morti: di Piersanti Mattarella, di Carlo Alberto Dalla Chiesa. E quella sua firma in calce alla legge che introduceva il reato di associazione mafiosa e prevedeva il sequestro dei beni ai boss — la legge Rognoni- La Torre approvata solo dopo l’uccisione di La Torre e Dalla Chiesa — fu probabilmente, per il ministro dell’Interno di quell’Italia ferita e indifesa, un modo per scrollarsi di dosso i rimorsi. Per dare un senso al sacrificio di quegli uomini coraggiosi che lui non aveva saputo salvare.
La Repubblica Palermo, 21/9/2022
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