di Giuseppe Savagnone
Responsabile del sito della Pastorale della Cultura dell'Arcidiocesi di Palermo, www.tuttavia.eu.
Scrittore ed Editorialista.
Un futuro già scritto?
Sembrerebbe, alla vigilia di queste elezioni che i giochi siano fatti. Maggioranze chiare, strade definite. Un quadro molto diverso da quello delle consultazioni del 2018, da cui venne fuori, a sorpresa, un governo che univa partiti fino a quel momento fortemente contrapposti, come erano 5stelle e Lega, sull’onda di un successo elettorale – soprattutto dei primi – da cui ci si aspettava un profondo rinnovamento dello stile stesso della politica.
Sappiamo tutti come andò a finire: il socio di minoranza, Matteo Salvini, prese in mano le redini del potere e lo gestì a suo uso e consumo, aumentando in modo esponenziale il proprio consenso popolare e mettendo in ombra l’alleato e lo stesso presidente del Consiglio. Fino al momento in cui, accecato dall’ebbrezza dei sondaggi favorevoli, che lo vedevano avviato al 40%, non fece il passo falso di determinare la caduta del primo governo Conte e di puntare su nuove elezioni, restando scornato dall’imprevista e imprevedibile convergenza dei 5stelle col PD per dar vita al Conte 2.
A prima vista può sembrare che oggi le cose stiano molto diversamente. I partiti della destra – Lega, Forza Italia e Fratelli d’Italia – si sono compattati in un fronte comune che, secondo i sondaggi, potrebbe conquistare addirittura i due terzi dei seggi parlamentari.
Nella manifestazione di chiusura della campagna elettorale, a piazza del Popolo, che ha voluto esibire la saldezza della coalizione, Giorgia Meloni ha evocato questa prospettiva alludendo alla proposta che più le sta a cuore, quella della modifica della Costituzione nel senso del presidenzialismo, una riforma per cui sarebbe necessaria, appunto, la maggioranza dei due terzi.
«Se gli italiani ci daranno la maggioranza, faremo una riforma in senso presidenziale e saremo felici se la sinistra vorrà darci una mano a efficientare le nostre istituzioni, ma se gli italiani ci daranno i numeri noi lo faremo lo stesso», ha detto la leader di Fratelli d’Italia.
Qui il futuro, a differenza che nelle precedenti elezioni, sembra chiaro. Lo ha sottolineato Salvini, quando, nel corso della stessa manifestazione, si è rallegrato di vedere in piazza «gente di tradizioni diverse che hanno deciso di essere insieme con un destino comune e un impegno che prendiamo noi tutti: governare bene e insieme per 5 anni. Ci troviamo qui tra 5 anni».
Due opposte tradizioni ideologiche
In realtà le cose sono un po’ più complicate. Basta leggere con attenzione i quindici punti che costituiscono il programma dei partiti della destra per rendersi conto che, dietro l’apparente neutralità delle formulazioni sintetiche, si nascondono punti di vista molto diversi, espressione delle rispettive tradizioni ideologiche.
Salvini e la Lega hanno soprattutto a cuore l’attuazione delle autonomie regionali, menzionate infatti in questo programma. In particolare di Emilia a Romagna, Lombardia, Piemonte e Veneto, prime quattro Regioni ad aver fatto richiesta dell’autonomia differenziata. È un progetto che risale alle origini della Lega Nord, e che rimane prioritario in un partito la cui forza elettorale è nelle regioni settentrionali.
La tesi ufficiale, molto ripetuta dagli esponenti della Lega, è che questa autonomia in realtà gioverà anche alle regioni del Sud. Non è chiarissimo in che modo. Intanto, però, quel che è certo e che essa è stata rivendicata da quelle più ricche d’Italia e che la prospettiva di una loro maggiore autonomia non è rassicurante per quella parte del Paese, il Meridione, che, dall’Unità in poi, ha pagato sulla propria pelle il decollo economico del Settentrione e che ora, da tempo, dipende in larga misura dal suo sostegno.
Sta di fatto, in ogni caso, che la prospettiva di Fratelli d’Italia – eredi, al contrario della Lega, di una tradizione statalista che ha sempre valorizzato l’unità del Paese – non mira certamente a favorirne la disgregazione in regioni sempre più autonome. Va in questo senso, del resto, il già citato progetto del rafforzamento del potere esecutivo con la riforma del governo in senso presidenzialista.
Autonomia e presidenzialismo, possono certamente coesistere, come del resto accade negli Stati Uniti, ma là si tratta di un assetto presente fin dalle origini, mentre per un Paese come il nostro, estraneo finora a entrambe queste formule, il loro accordo appare assai più problematico. Si deve forse anche a questi differenti punti di vista se, a fronte dell’ossessiva insistenza di Lega e Forza Italia per una diminuzione delle tasse con l’introduzione della flat tax, la proposta della Meloni è assai più cauta, prevedendola solo per la parte di reddito eccedente rispetto a quanto dichiarato l’anno prima.
Una misura destinata a favorire soprattutto i redditi più alti e a favorire così il ricorso a servizi privati a spese di quelli pubblici è probabilmente più in linea con gli interessi del Nord benestante che con quelli del Sud e, più in generale, del Paese considerato nel suo insieme come una unità inscindibile.
Ombre sulle convergenze
Anche per quanto riguarda i punti su cui sembrerebbe esservi un sostanziale accordo, come l’atlantismo e la condanna della guerra scatenata dalla Russia, emergono improvvisamente crepe che distanziano gli alleati, se non sulla sostanza, almeno sul modo di manifestarla.
Intervistato da Bruno Vespa in una trasmissione televisiva Berlusconi ha fornito una lettura della guerra destinata a mettere fortemente in imbarazzo i suoi alleati, impegnati a rassicurare l’opinione pubblica italiana e quella mondiale sulla loro fedeltà alla linea dell’Occidente. «Putin», ha detto Berlusconi, «è stato spinto dalla popolazione russa, dal suo partito e dai suoi ministri a inventarsi questa operazione speciale (…). Le truppe dovevano entrare, in una settimana raggiungere Kiev, sostituire con un governo di persone perbene il governo di Zelensky ed in una settimana tornare indietro».
Non sembra esattamente la ricostruzione dei fatti che ne danno gli Stati Uniti e l’Alleanza atlantica – soprattutto a proposito di quel «governo di persone perbene», scelte da Putin, che avrebbe dovuto sostituire Zelensky – , con cui pure Berlusconi, come pure Salvini e Meloni, si affannano a ripetere di essere in piena sintonia.
Anche la perfetta intesa, che invece sicuramente c’è, sulla «difesa delle frontiere» dall’«invasione» dei migranti non riesce a nascondere sottolineature diverse. Per la Meloni è una necessità, per Salvini è una passione: «Chi sceglie il simbolo della Lega dà fiducia ad un quarantanovenne che è a processo perché ha bloccato gli sbarchi clandestini. L’ho fatto e non vedo l’ora di farlo. Da presidente del Consiglio se gli italiani lo vorranno, o da umile servitore dello Stato», ha detto il leader della Lega a piazza del Popolo.
A queste incognite, legate alla linea politica, se ne aggiungono altre, più prosaiche ma molto concrete, che nascono dalle ambizioni personali di Salvini e della Meloni. Come l’ultima frase del leader del Carroccio lascia trapelare, i numeri sfavorevoli dei sondaggi non sono bastati a farlo desistere dalla speranza di essere lui il premier del nuovo governo.
Giorgia Meloni, da parte sua, sta già preparando la lista dei ministri e trapela la sua difficoltà nell’assegnare un posto al suo alleato. In ogni caso ha in più occasioni lasciato capire che non ne accetterebbe mai un ritorno al ministero degli Interni, che gli permise, nel primo governo Conte, di occupare il centro della scena e fu il trampolino per la sua ascesa esponenziale nei consensi degli italiani.
Molto dipenderà, naturalmente, dal responso delle urne. Ma è difficile immaginare che, quale esso sia, Salvini accetterà di far parte di un governo che lo releghi in un ruolo secondario.
Altre ipotesi, ancora più problematiche
Come si vede, il margine delle incognite, nel caso in cui le previsioni di vittoria della destra si avverassero, è molto più ampio di quanto si lasci credere agli elettori. Ma forse ancora maggiori sono quelle che si intravedono in caso di una buona affermazione della sinistra.
La fatwa di Enrico Letta nei confronti dei 5stelle esclude una loro possibile alleanza, che rinnovi quella del secondo governo Conte. E, a meno di una grossa sorpresa, il centro di Azione/Iv non sembra in grado di andare in Parlamento con dei numeri sufficienti a dar vita a un governo di centro-sinistra.
Si potrà verificare la previsione, fatta da Calenda, di un secondo governo di solidarietà nazionale la cui guida sia nuovamente affidata a Draghi? Alla luce delle posizioni attuali di destra e sinistra una simile soluzione sembra da escludere nel modo più drastico.
E allora? L’autunno e l’inverno che si prospettano, stando alle previsioni, come tra i più difficili della nostra storia repubblicana. Affrontarli in un clima di litigiosità irrisolte e con un governo debole sarebbe un suicidio (il secondo, dopo quello che ha portato alla crisi del governo Draghi) che non ci possiamo permettere. Nel vecchio film di Robert Mulligan «Il buio oltre la siepe» si assiste in realtà a un lieto fine. Il «buio» che faceva tanta paura viene alla fine dissipato dal corso delle vicende. Possiamo solo augurarci sinceramente che lo stesso accada per le ombre che si prospettano dietro le urne di domenica.
tuttavia.eu, 23/9/2022
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