Lino Buscemi
Benché siano passati quaranta lunghi anni dal 3 settembre 1982, la verità non è ancora emersa nella sua interezza. Quel giorno a Palermo, nella centralissima via Isidoro Carini, furono barbaramente uccisi, nel corso di un vile agguato di stampo mafioso, il prefetto Carlo Alberto Dalla Chiesa e la moglie Emmanuela Setti Carraro. L’agente di scorta, Domenico Russo, gravemente ferito spirerà in ospedale pochi giorni dopo.
Dalla Chiesa, all’atto del suo insediamento, aveva chiesto al Governo ampi poteri e adeguati mezzi per contrastare efficacemente Cosa Nostra e per avviare, con la collaborazione delle istituzioni locali, una profonda bonifica sociale a tutela della legalità ,dei diritti del cittadino, dell’efficienza dei pubblici poteri e della corretta azione amministrativa con lo scopo di vanificare clientelismi, favoritismi e l’uso distorto di pubbliche risorse.
Era venuto, come si disse anche con enfasi, per cambiare la storia e dopo quattro mesi lo uccisero senza pietà. Nondimeno per molti palermitani della mia generazione (e non solo), la sua nomina costituì più di una speranza. Il generale-prefetto, agli occhi della frastornata opinione pubblica, appariva ormai come colui che, nel rispetto della legge, avrebbe credibilmente, pur in un clima quasi di resa, ripristinato l’autorevolezza dello Stato in tutto il territorio locale. Nel medesimo periodo in cui Dalla Chiesa enunciava ,nelle sedi più diverse (municipi, fabbriche, uffici, scuole), i suoi obiettivi suscitando vasti consensi, venni rieletto per la seconda volta sindaco del Comune di Alia. Era, infatti, il 29 luglio del 1982 quando giurai nelle mani di Carlo Alberto Dalla Chiesa “fedeltà alla Repubblica e alle sue leggi” (quel giorno giurò pure il sindaco di Marineo Ciro Spataro. Fummo, quasi certamente, gli unici sindaci a compiere quell’atto, secondo le leggi di allora, nel breve periodo in cui il generale resse la prefettura palermitana). Avevo atteso per una intera settimana il suo rientro dal nord per fissare la data del giuramento, perché mi era sembrato importante cogliere l’occasione per esprimere personalmente vicinanza umana e solidarietà all’azione che quel distinto servitore dello Stato stava portando avanti con entusiasmo e quasi in perfetta solitudine. Mi piacquero molto sia la severa analisi di Dalla Chiesa sul fenomeno mafioso e sue preoccupanti ramificazioni, che i buoni propositi che avrebbero dovuto contraddistinguere la sua attività. Argomenti ribaditi e sviluppati, con amarezza e preoccupazione, nell’accorata intervista che il Generale rilasciò il 10 agosto al grande giornalista Giorgio Bocca. Difficile dimenticare, fra le tante, una frase: occorre assicurare i più «elementari diritti ai cittadini . Per togliere potere alla mafia, per fare dei suoi dipendenti i nostri alleati».
Restare insensibile al suo pubblico invito di creare forti solidarietà trasversali, mi sembrava una fuga che indirettamente alimentava l’isolamento attorno ad un uomo che voleva condurre fino in fondo la sua battaglia.
Come rappresentante di una piccola comunità, avvertivo che era opportuno far sentire la propria voce. E questo feci, quel giorno, presentandomi, emozionato e trepidante, alla sobria cerimonia tenutasi in prefettura. Fra giuramento, discorso, foto di rito e firma del verbale di giuramento (testimoni i futuri prefetti Roberto Sorge e Carlo Fanara) , ci fu spazio per un lungo colloquio fra me e il generale-prefetto. Mi chiese di parlare dei principali problemi del comune da me rappresentato. Messo a mio agio stavo per consegnare un lungo appunto, una sorta di cahier de doléances. Esitai un poco.
Poi, per evitare di mettere troppa carne al fuoco, optai per evidenziare un solo problema, un secolare problema: quello della mancanza d’acqua. Problema che proprio in quei giorni aveva generato un forte malcontento tra la popolazione, come fu evidenziato dalla stampa locale e nazionale. Dissi al prefetto che, a causa dei ritardi nei lavori di costruzione della condotta di collegamento fra il lago Fanaco e l’acquedotto Montescuro est, Alia e ben sette comuni vicini non potevano usufruire di una maggiore portata d’acqua che avrebbe alleviato la sete di quelle comunità ormai esasperate dopo anni di promesse. Dalla Chiesa ascoltò attentamente e disse, scuotendo la testa, al suo capo di gabinetto di prendere dettagliati appunti promettendomi un suo diretto intervento. Naturalmente lo ringraziai e gli sottolineai la necessità di lanciare un concreto segnale attesa la gravità della situazione. Uscii dalla prefettura soddisfatto per l’attenzione prestatami, ma con un velo di scetticismo su ciò che gli uffici avrebbero fatto in concreto.
Il giorno dopo mi recai a Lercara Friddi. Con alcuni colleghi mi ero recato in un bar del corso e fu lì che appresi che presso il reparto dell’Ente acquedotti siciliani era in corso una riunione presieduta dal prefetto Dalla Chiesa giunto a Lercara di buon mattino con la macchina di servizio (senza scorta!) e accompagnato dal capo di gabinetto Sorge. Lì per lì rimasi incredulo. Non mi sembrava vero che il prefetto di Palermo fosse venuto di persona, a Lercara, per sollecitare impresa appaltatrice e organi tecnici ad accelerare il ritmo dei lavori. Era un fatto senza precedenti. Capii, in quel frangente, che lo Stato non ci abbandonava e che faceva sul serio. Lo Stato che si avvicina alla gente, ecco la novità. Pochi minuti dopo Dalla Chiesa con il seguito venne al bar e lì ovviamente ci incontrammo. Egli sorridente mi disse: «Caro sindaco, entro il 10 agosto l’impresa qui presente mi ha promesso che completerà i lavori. Rassicuri i suoi concittadini che avranno acqua nella giusta quantità. Dica ai suoi colleghi sindaci che spetta anche a voi operare affinché il cittadino abbia più fiducia nello Stato e nei suoi rappresentanti. Senza fiducia e consenso sarà impossibile vincere secolari battaglie». Quindi, garbatamente, mi invitò a protestare di meno sui giornali. A ferragosto del 1982 l’acqua arrivò ad Alia e nei centri vicini, nei limiti della quantità promessa.
Ho voluto raccontare questo fatto nel 40° anniversario dell’eccidio di via Carini, perché, lungi dal cadere nell’agiografia, il generale-prefetto, con una invidiabile semplicità e prontezza, mi fece intuire qual è la strada da seguire, a tutti i livelli, per ripristinare il «senso dello Stato». Quel «senso dello Stato» che stenta ancora oggi a trovare proseliti proprio nel momento in cui dure prove affliggono la nostra pur tormentata Repubblica. Carlo Alberto Dalla Chiesa, il «senso dello Stato», senza dubbio, lo incarnava degnamente e, quel giorno, a Lercara Friddi, venne per darne completa e tangibile dimostrazione anche a futura memoria.
GdS, 2/9/2022
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