DI CORRADO AUGIASIl manifesto. Propaganda elettorale fascista nel 1934
Esce una corposa antologia di scritti politici e discorsi: pagine che ci aiutano a ricostruire uno snodo cruciale della nostra storia
Alla vasta bibliografia sul fascismo s’aggiunge un volume che disegna, per così dire, l’autoritratto del fondatore. David Bidussa racconta il Duce con le sue stesse parole nel volume: Benito Mussolini. Scritti e discorsi, 1904-1945 (Feltrinelli). Quasi settecento pagine aperte da una robusta prefazione/analisi che collega gli interventi all’occasione o al periodo. Saggio importante, fa capire come il Duce vedesse se stesso: azioni, propositi, traguardi. Un’ottica che — a parte le considerazioni iniziali del curatore — lascia a chi legge il giudizio storico sul dittatore del quale fa parte una decisa componente criminale.
L’impressione che si ricava è quella di un abile, tenace oratore, moderno e antico nello stesso tempo, seduttivo e violento, compiaciuto dalla sua facilità di parola, dalle sue doti istrioniche; un attore che sa tenere la scena anche contro l’evidenza. Quando per esempio le sorti della guerra appaiono segnate, continua ad indicare un sogno di vittoria a metà tra disperato coraggio e allucinata illusione per rincuorare più sé stesso che i suoi incerti seguaci. Evidente la disinvoltura con la quale adatta dottrina e prassi fasciste al mutare delle circostanze. Quando non può più nascondere che la guerra da lui cocciutamente voluta va di male in peggio, non parla più di «una nazione in armi» ma di guerra come scelta militante, per soldati politici, forti e fedeli. Nell’impresa feroce e patetica di Salò, ridiventa repubblicano, riprende i temi della socializzazione anche se sa benissimo di non avere i mezzi per applicarli.
Mussolini sembra non rendersi sempre conto che la civiltà industriale ha cambiato i modi della guerra e cambierà quelli della pace nelle scelte produttive ed economiche, nei consumi e nei costumi. Invoca otto milioni di baionette che non ci sono e anche se ci fossero sarebbero un’arma patetica, adatta, al più, alla guerra ’15-’18. Anche se sono innegabili alcune innovazioni introdotte dal Regime nella struttura del paese, il Duce resta sostanzialmente ancorato ad un ideale agricolo. Descrive l’insediamento nella campagna come fondamento dell’identità italiana. Sottolinea il ruolo delle donne come fattrici, è assillato dal problema di incrementare le nascite. Dice: «Una nazione esiste non solo come storia o come territorio, ma come masse umane che si riproducono di generazione in generazione. Caso contrario è la servitù o la fine». Impone una tassa sul celibato, premia le famiglie numerose, proclama che «l’urbanesimo industriale porta alla sterilità le popolazioni». È un uomo del fare, la sua elaborazione dottrinale è povera. Ha letto con profitto Gustave Le Bon (Psicologia delle folle ),sa come manipolare le masse, applica tecniche seduttive alla comunicazione: nella mimica, nell’articolazione della voce, nei gesti.
Nella sostanza, sfrutta spesso l’estremismo delle origini socialiste. Di quell’esperienza ha mantenuto una radicalità di visione che, già nei primi anni di militanza, lo ha fatto nemico di ogni riformismo: «Ci auguriamo che il Partito nostro ritorni ai suoi metodi antichi di lotta, incalzi con una combattività implacabile i poteri costituiti». Critica l’evangelismo socialista di De Amicis che, scrive: «Non si rivolgeva agli oppressi, ma ai dominatori per convincerli a rinunziare alle loro ricchezze e si credeva di raggiungere questo scopo con un’ostinata predicazione della dottrina evangelica».
Fondamentale, fa notare il curatore Bidussa, l’anno 1926. Il 20 novembre con un intervento al Senato spiega le ragioni della legge per la difesa dello Stato che istituisce tra l’altro ilTribunale speciale. Il ministro di Grazia e giustizia Alfredo Rocco precisa che si tratta della «creazione di una nuova legalità perché tutto finalmente rientri nella legalità». Abile sillogismo — le leggi concepite a misura del Regime — che segna l’inizio formale della dittatura. Quel tribunale, spiega Mussolini: «Sarà composto di persone scelte da me, per ogni verso insospettabili […] Non farà vendette ma severa giustizia». Sarà vero il contrario.
Dai tempi del socialismo non aveva mai nascosto il suo disprezzo per la borghesia («una categoria morale, uno stato d’animo») e il liberalismo democratico. Nel marzo 1923 scrive su Gerarchia : «...Gli uomini sono forse stanchi di libertà. Ne hanno fatto un’orgia [...] Per le giovinezze intrepide, inquiete ed aspre che si affacciarono al crepuscolo mattinale della nuova storia, ci sono altre parole che esercitano un fascino molto maggiore, sono: ordine, gerarchia disciplina». Le leggi sul razzismo lo fanno sconfinare nella criminalità anche perché le sue parole rivelano le sue deboli, incerte motivazioni: un misto di pregiudizi, insufficienze culturali, ridicoli timori. Dopo la guerra d’Etiopia (1935-36) era già comparsa la preoccupazione di preservare l’italianità dell’impero e del territorio. C’era, ricorda Bidussa, la paura del meticciato, la “mescolanza” genetica. Si forma allora il linguaggio del razzismo che rinvia anche al repertorio antisemita in essere da tempo.
Quando il Duce lancia la legislazione antisemita (Trieste, 18 settembre 1938) s’affretta a giustificarsi: «Coloro i quali fanno credere che noi abbiamo obbedito a imitazioni o, peggio, suggestioni, sono dei poveri deficienti […] Il problema razziale non è scoppiato all’improvviso». Poche settimane dopo, davanti al Consiglio nazionale del Pnf, tornano le incertezze, quasi volesse convincere prima di tutto se stesso: «Bisogna mettersi in mente che noi non siamo camiti, non siamo semiti, non siamo mongoli. E se non siamo nessuna di queste razze, siamo evidentemente ariani, venuti dalle Alpi, dal nord. Quindi siamo ariani di tipo mediterraneo, puri». E più oltre: «Bisogna reagire contro il pietismo per il povero ebreo. Che ha fatto di male? Sono qui da tre secoli, da cinque, da dieci secoli [...] non si affronta mai il problema generale: l’ebreo è il popolo più razziale dell’universo». Trapela, ancora una volta, l’ansia colpevole di spiegare ciò che sta facendo. Trascuro molti altri aspetti ma non le sue spiegazioni ai Patti Lateranensi dell’11 febbraio 1929. La Santa Sede trattò con abilità ottenendo ingenti riparazioni finanziarie e ampia possibilità d’ingerenza nella vita degli italiani: matrimonio, educazione cattolica nelle scuole, interventi delle autorità ecclesiastiche nelle funzioni del Regno. Quando Mussolini difende il provvedimento alla Camera (13 maggio 1929), sembra consapevole del prezzo pagato: «Ebbene, o signori, non abbiamo risuscitato il potere temporale dei papi: lo abbiamo sepolto. Nessun territorio passa alla città del Vaticano all’infuori di quello che già possiede [...] nessun italiano diventerà suddito di quello Stato che noi con atto spontaneo della nostra volontà di fascisti e di cattolici, abbiamo creato».Resiste solo alle pretese vaticane di rimuovere le statue di Giordano Bruno e di Garibaldi, testimonianze dell’Italia che in vario modo ha contestato l’assolutismo clericale: «Dichiaro che la statua di Giordano Bruno, malinconica come il destino di questo frate, resterà dov’è […] Non è nemmeno da pensare che il monumento a Garibaldi sul Gianicolo possa avere un’ubicazione diversa». Le statue sono rimaste; ma sono rimasti anche i Patti entrati, con l’articolo 7, perfino nella Costituzione repubblicana del 1948.
La Repubblica, 28/9/22
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