di ANTONIO MARIA MIRA
Abdullah, David, Emmanuel, Happiness detto 'Felice', Joy, Raji detto Andò, compaiono e scompaiono tra le piante del grande frutteto. Raccolgono pesche. Rapidamente riempiono i cestelli e poi li caricano sul rimorchio di un piccolo trattore. Si muovono con facilità malgrado il terreno sconnesso. Hanno tutti le scarpe regolari da lavoro. Perché sono braccianti regolari, con contratto e orari regolari e presidi di sicurezza.
Siamo a Riesi (Caltanissetta), nei frutteti della Ecofarm OP, che produce pesche, albicocche e uva da tavola. Il 50% del fatturato dall’export. 10 dipendenti fissi e 300 stagionali, tra di loro 20 immigrati, di Somalia, Nigeria, Marocco e Pakistan, grazie alla collaborazione con la Caritas diocesana nell’ambito del Progetto Presidio e con l’Ufficio Migrantes. A disposizione anche un pullmino per trasportare i braccianti, guidato da uno di loro, togliendo uno degli 'affari' dei caporali. Non l’unica azienda coinvolta. Sono 80 gli immigrati inseriti nei percorsi lavorativi e 6 le aziende che li hanno assunti, più altre per i tirocini. A Delia, Riesi, San Cataldo e Santa Barbara. Non solo aziende agricole, c’è perfino una tipografia. E questo in appena un anno.
Con gran soddisfazione dei lavoratori, italiani e immigrati, e delle aziende, come ci spiega Giuseppe Patrì, direttore di Ecofarm. «Li chiamano 'i ragazzi della diocesi', arrivano un’ora prima e partono un’ora dopo, hanno una volontà di ferro. Tra gli operai italiani c’era all’inizio scetticismo, ma poi i ragazzi africani hanno dimostrato di essere i più bravi ». Ce lo dicono proprio quelli che incontriamo nel pescheto. «Joy è la più brava di tutti», indicando la giovane nigeriana che ci saluta mentre raccoglie le pesche. «Anche gli altri imprenditori non ci credevano ma ora mi chiamano e dicono 'non è che ci sono anche per noi?'». Anche perché, aggiunge, «i lavoratori diminuiscono, gli italiani non hanno voglia, ma non a causa del reddito di cittadinanza ». Certo lo sfruttamento non è finito. «Chi li sfrutta fa concorrenza sleale. Io gli dico che stanno perdendo tempo perché poi gli operai se ne andranno. Invece qui da noi lavorano da anni, ormai sono riesini». Perché qui c’è rispetto per i lavoratori, per tutti.Diversamente dalla Puglia, la Regione Sicilia non ha fatto un’ordinanza sugli orari da rispettare nei lavori in campagna, per evitare le ore più calde, «ma noi lo abbiamo fatto autonomamente – spiega l’imprenditore – e si lavora dalle 6 alle 13. Anche noi siamo nei campi con loro e sappiamo cosa vuole dire lavorare col caldo». Una scelta di giustizia convinta che viene da lontano. Rocco Patrì, il padre di Giuseppe, è stato fondatore ed è ancora presidente dell’associazione atiracket 'Noi e la Sicilia'. «Qui sanno che se arrivano a proporci cose illegali neanche li accogliamo ». Non solo criminalità. Giuseppe denuncia l’esistenza di «un mare di agenzie interinali, anche del Nord, che con false cooperative propongono manodopera a non finire. Ma noi abbiamo sempre detto di no». Anche per questo sono diventati una garanzia per la grande distribuzione. La loro frutta finisce a Esselunga, Coop, Conad, Lidl che controllano la 'filiera etica'. Lo dimostra, mentre parliamo, l’arrivo di un’ispettrice della Lidl, incaricata di controllare il rispetto dei contratti e delle norme sulla sicurezza. Dentro i grandi capannoni decine di operai lavorano la frutta, con grandi mezzi e poi a mano per sistemarla negli imballaggi. Tutte donne, alcune straniere, tutte con i regolamentari abiti da lavoro. Ambienti ampi, puliti e arieggiati. È un bel segnale.
Ma non tutto è così nel Nisseno, raccontano Giulio Scarantino, responsabile del Progetto Presidio della Caritas e Donatella D’Anna, direttrice dell’Ufficio Migrantes. Ai due sportelli di ascolto si presentano ogni giorno 4-5 persone. «Quando si apre la stagione dei lavori in campagna, c’è la fila». Si distribuisco alimenti e prodotti di prima necessità. Ma si promuovono anche iniziative occupazionali come una sartoria e un laboratorio di sapone artigianale. «La migliore risposta allo sfruttamento è trovare opportunità di lavoro», sottolineano. Per questo è nata la collaborazione con le aziende agricole. Ma al di fuori lo scenario non cambia. «I braccianti sono pagati in nero 40 euro al giorno ma devono poi pagare il caporale per l’intermediazione e per il trasporto. E alla fine restano meno di 30 euro». Vivono nel centro storico di Caltanissetta, in vere e proprie topaie, in affitto o occupate. E anche qui c’è il 'mercato' delle false residenze: 250 euro l’una.
Contro tutto questo combatteva Adnan Siddique, il giovane pakistano ucciso a coltellate dai caporali nel 2020 per aver difeso i diritti dei braccianti. «Per noi è stato uno stimolo a fare di più, ma non è facile. La prima lotta è con gli sfruttati perché non riescono a capire. Vogliono i soldi subito anche se in nero, non sanno di essere sfruttati, non conoscono contributi né ferie. Per questo facciamo un corso sui diritti del lavoro». Le violenze non sono finite. «Un ragazzo è stato minacciato perché era venuto a lavorare con noi», rivelano gli operatori. Ma la preziosa collaborazione tra diocesi e imprese cresce.
avvenire, 21/08/2022
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