Nando Dalla Chiesa |
Il ricordo del figlio del prefetto ucciso il 3 settembre 1982 assieme alla moglie e all’agente Russo: “Ho fatto tutto il possibile per mio padre e l’ho pagata”
di Salvo Palazzolo
«Il 3 settembre tornerò dove hanno ucciso mio padre», racconta Nando dalla Chiesa, scrittore, sociologo, da sempre impegnato a denunciare le collusioni della mafia col potere. Come faceva suo padre, il generale Carlo Alberto dalla Chiesa, ucciso da prefetto di Palermo il 3 settembre 1982, assieme alla moglie Emanuela Setti Carraro e all’agente Domenico Russo.
Nel 2004, aveva rinunciato a venire a Palermo per evitare strette di mano imbarazzanti con l’allora presidente della Regione: oggi Salvatore Cuffaro è tornato a decidere le sorti della campagna elettorale sostenendo l’attuale sindaco Roberto Lagalla. Non le crea un qualche imbarazzo?
«La questione delle mani da stringere me la risolverò per i fatti miei e chiederò aiuto ai carabinieri. Io starò con loro e con il prefetto, che tante cose importanti stanno organizzando».
Quanti ricordi ha di Palermo?
«I primi sono legati alla caserma di corso Vittorio Emanuele, oggi intitolata a mio padre. È la sede della Legione carabinieri Sicilia. Alla fine degli anni Quaranta, era mio nonno materno il comandante, porto il suo nome. Ogni estate, andavamo a trovarlo. Ricordo il suo appartamento, le scuderie. Poi, in quella caserma, ci tornai adolescente con mio padre colonnello dei carabinieri, alla fine degli anni ’60».
In una foto riemersa di recente dagli archivi dell’Arma e pubblicata nella mostra “Carabinieri a Palermo”, si vede il colonnello Carlo Alberto dalla Chiesa nell’atrio della caserma di corso Vittorio Emanuele mentre distribuisce palloncini ai figli dei suoi carabinieri. Era la befana del 1970, il periodo in cui stava preparando il rapporto alla commissione parlamentare antimafia su Vito Ciancimino, un’inchiesta delicata. Eppure, in quei mesi non smetteva di sorridere.
«Ha colpito anche me quella foto. Ma chi lo ha conosciuto sa come riuscisse ad integrare le attività più delicate con i momenti di svago per i bambini dei suoi militari: faceva parte della sua idea di integrazione fra Arma e famiglia. E nella situazione complicata di quegli anni, organizzare l’Ugoletta d’oro diventava una fatica in più per lui».
Aveva grande attenzione per i ragazzi. Da prefetto di Palermo, andò a trovare gli studenti di alcuni licei, come a stabilire un’alleanza. E dopo il 3 settembre 1982, il lavoro con i giovani è diventata la sua missione di vita.
«Mi fa piacere che venga riconosciuto il mio impegno, in prosecuzione di quanto faceva mio padre».
Nella lettera che scrisse sull’aereo diretto a Palermo chiedeva ai giovani che più amava, i suoi figli, di stargli vicino.
«Era una richiesta di aiuto. Non sapeva dove stava andando, e in che condizioni».
Nella famiglia, Carlo Alberto dalla Chiesa ha avuto sempre un punto di riferimento fondamentale, lo raccontano tante foto.
«Metteva la famiglia al servizio di qualcosa di più grande».
Ricevette la notizia della sua nascita mentre era capitano a Corleone, di pattuglia, una sera d’estate.
«Per me, la Sicilia è piena di ricordi che si sono accumulati nel tempo. Avolte, mi sembra ancora di sentire l’odore dei cavalli davanti al cinema Fiamma, di via Notarbartolo. Oppure il profumo dei gelsomini di vicolo Pandolfini, dove incontravo Emilia, la ragazza che poi sarebbe diventata mia moglie. Per me Palermo e la Sicilia rappresentano una quantità di sensazioni difficilmente descrivibili».
Quando scoprì cos’era Palermo?
«Nel 1966, a 17 anni, mi colpì la simpatia che si respirava verso la mafia. Anche fra i miei compagni del liceo Garibaldi: quando il boss Gerlando Alberti sfuggì a una retata dei carabinieri, molti erano contenti, parteggiavano per lui, innocentemente».
Oggi, le indagini fanno emergere una grande voglia di mafia, da Sud a Nord. Quanto è insidiosa?
«È molto pericolosa. Io penso che si sia ridotta la società mafiosa, ma si è allargata la società filomafiosa, quella che cioè riesce entrare in sinergia, in convergenza, con quella mafiosa per tante ragioni. Al Nord, studiamo da anni questo fenomeno preoccupante. Lo sforzo dovrebbe essere allora quello dell’educazione a lungo termine. Perché c’è molto da bonificare. E la repressione, che pure rappresenta un momento essenziale, non è sufficiente».
Come vede oggi Palermo?
«L’area che ha deciso di rompere con la mafia c’è ed è ampia. Ma resta ampia la zona che nutre una forte simpatia nei confronti dell’organizzazione e del suo sentire».
Nell’ultima intervista a Giorgio Bocca, suo padre parlava della necessità di tracciare una nuova mappa del potere mafioso.
Bisognerebbe farlo anche oggi?
«Io parto dalla schiettezza di Falcone: la mafia è sempre la stessa. Sono cambiate le forme di manifestazione del fenomeno criminale, ma l’essenza resta identica. Dovrebbe far riflettere».
In questa campagna elettorale, il tema mafia è adeguatamente affrontato o vede pericolosi silenzi?
«Non è affrontato per nulla. Se si parlasse di mafia quanto si parla di Calenda sarebbe un altro Paese. Invece, non se ne parla per niente e questo è impressionante: vuol dire dare per scontato che il problema non è più primario. Mentre noi sappiamo che non è così».
Nelle sentenze sugli assassini di suo padre, si fa riferimento a un livello altro rispetto alla mafia, di potentati e centri occulti che avevano ugualmente interesse all’omicidio. Com’è possibile oggi continuare a cercare la verità? Forse con un lavoro specifico della commissione parlamentare antimafia?
«In genere questo tipo di commissioni non funzionano, servono solo a raccogliere materiale utile agli storici. È stata un’eccezione, la commissione presieduta da Rosy Bindi, vice era Claudio Fava, fecero un lavoro davvero importante, nonostante i tanti ostacoli frapposti.
La verità va cercata ovunque, con gli studi, con le inchieste, con il giornalismo. Perché la mafia non va solo denunciata e indagata, ma anche raccontata: è uno dei meriti di Libera. La mafia va conosciuta in tutti i modi. In questi ultimi anni, contributi importanti stanno arrivando anche dal teatro. Qualcuno, forse, dovrebbe parlare un po’ di più di economia rispetto al fenomeno mafioso».
Quanto è stato difficile per lei cercare la verità?
«Ho fatto tutto il possibile, credo di essere stato un bravo figlio. Ho fatto tutto il possibile e naturalmente l’ho pagata. E questo rimane un punto di amarezza. Altri figli non l’hanno pagata quanto me, magari perché erano più giovani. Invece, a me, è toccato dire certe cose da trentenne che studiava il fenomeno, cose che hanno dato fastidio. E non solo per un certo periodo del potere, perché il potere si tramanda certe idee. È il potere politico, sociale, è il potere dell’informazione: anche a distanza di 40 anni ti viene addosso per aver fatto una battaglia sacrosanta. È invece molto cambiato l’atteggiamento dei carabinieri. Per il resto, c’è sempre questa diffidenza attorno a me: non c’è più Andreotti, ma lo spirito di Andreotti aleggia fra di noi».
Da qualche tempo è in pensione, come prosegue il suo impegno all’università?
«Il rettore di Milano mi ha nominato suo delegato per l’area degli studi sul crimine organizzato. Continuo ad avere tre insegnamenti».
Perché secondo lei all’università di Palermo non c’è altrettanto impegno sul fronte dell’approfondimento del fenomeno mafioso? Qualche anno fa, venne chiamata addirittura l’allora giudice Silvana Saguto come massima esperta.
«Io so che l’università ha una studiosa molto preparata su questi temi, è Alessandra Dino».
Sarebbe bello avere anche il professore dalla Chiesa.
«Quando mi ero offerto sull’onda dell’entusiasmo per il contributo che potevo dare alla città, mi dissero che non potevo propormi. Era dopo aver finito l’impegno in Parlamento. Trovai un vero sbarramento».
La Repubblica Palermo, 28/8/22
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