di ANNA MALLAMO
Sono venuti dal mare, come tanti miti, simboli e idoli sacri. Come i conquistatori e i pellegrini, come i salvatori e i naufraghi. Li abbiamo subito sentiti come «nostri», li definiamo tuttora simbolo «identitario», e sono universalmente noti come «Bronzi di Riace», legati per sempre alla Calabria, anche se sono stati soltanto ritrovati in quelle acque, il 16 agosto di 50 anni fa.
Ma in essi splende – sia pure circonfuso d’enigma – quel mondo antico a cui sentiamo oscuramente, luminosamente di appartenere. Anzi, su tale appartenenza è fondata buona parte della nostra identità e persino del nostro orgoglio, come se richiamarsi a un’eredità di splendore, per quanto lontana nel tempo, possa superare qualsiasi bruttura e bassezza del presente e del passato prossimo. In qualche modo misterioso – che ha a che fare col lavorìo silenzioso degli archetipi, col modo in cui la tradizione ci innerva e ci agisce, e il racconto del passato, sia pure talora favolisticamente ricostruito, può ancora motivare il presente – quest’appartenenza rivendicata è autentica, e percepibile con immediatezza, quando ci si trova al cospetto delle due statue.
Lì sta tutto: è stato il nudo, incontrovertibile potere della loro presenza a certificarne, già subito dopo il restauro (durato cinque anni) e durante la prima delle due esposizioni italiane, a Firenze, nel 1980, l’incredibile successo di pubblico, la reazione corale e accesa che in pochi mesi (l’esposizione doveva durare alcune settimane, venne prorogata a seguito di vere e proprie manifestazioni di piazza) mostrò che la gente, la gente comune, anche quella che forse mai aveva visto un bronzo greco (in effetti non ce ne sono moltissimi, e poi il nostro immaginario è sempre stato colonizzato dalle statue di candido marmo...), s’era innamorata dei due eroi, o guerrieri, o dei, o qualunque cosa fossero. Un amore esplosivo, sorprendente, tanto più perché s’accendeva in un momento in cui la cultura classica non riscuoteva – non riscuote – particolare considerazione o interesse.È lì, dentro di loro, o meglio nella superficie, nei dettagli, nelle differenze e somiglianze che creano – quale che sia il livello a cui noi lo percepiamo – un dialogo fitto tra le due statue, e delle statue con tutto quello che sappiamo o le suggestioni che ci attraversano. Sono diverse le ipotesi d’identificazione dei personaggi che dovevano rappresentare (in queste pagine diamo conto di quella del prof. Castrizio, docente reggino), e il dibattito scientifico è sempre in corso, ma scorre, come dire, parallelo alla “vita” dei Bronzi, che è quella di icone e simboli, e come tali declinati in molte forme “altre” (dalle copie alle foto “pop”, dai cartoon alle rivisitazioni artistiche moderne), che quasi sempre non mancano di suscitare sconcerto e riprovazione, e invece ne certificano la vitalità, la presenza “calda” nell’immaginario, la capacità di restare sempre riconoscibili, potenti, unici.
C’è una forte mobilitazione per quest’anniversario, sentito anche come banco di prova per una Calabria che guarda oltre e prova a essere “grande”, a mostrare doti di programmazione culturale e logistica (ma, parliamoci chiaro, c’è tutto un sistema di trasporti, strutture e comunicazione da mettere a punto...). E possiamo accoglierne la mozione d’«identità», se intendiamo la nostra appartenenza mediterranea e magnogreca, e accettare il ruolo – magnifico – di custodi dei Bronzi, dove per custodia s’intende il farne centro vivo di comunità e partecipazione (su questo sta lavorando da tempo, ottimamente, il Museo di Reggio col suo direttore Malacrino), di militanza per la Bellezza e lo Sguardo. E allora sì, siamo tutti coi, dei «Bronzi di Riace» (che richiamano nel nome, comunque se ne pensi, un luogo famoso anche per una straordinaria esperienza d’umanità e accoglienza, nello spirito mediterraneo), e ogni momento, ogni azione sarà celebrazione del Bello e del Giusto: lo dicevano i Greci, è l’ethos profondo delle statue, che ancora ci colpisce al cuore.
GdS, 15/8/2022
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