di Giorgio Gatto Costantino
Per comprendere la grandezza del mito dobbiamo lasciare le rassicuranti categorie quotidiane dello spazio-tempo per tornare indietro non di 50 ma di 2520 anni; ossia il nostro breve lasso temporale oggetto dell’odierno festeggiamento più i quasi due millenni e mezzo che ci separano dalla fusione delle argille di Argo che diedero vita agli immortali Bronzi di Riace.
E una volta attraversati gli evi al contrario, guardiamo ancora indietro, al tempo che si perde nel mito nella foschia insidiosa della piana di Tebe. Qui troviamo due fratelli, Eteocle e Polinice. Sono colmi d’odio reciproco e pronti a scannarsi per decidere chi dovrà governare sulla città nella consapevolezza che nessuno dei due sopravvivrà all’inesorabile scontro. Nel mezzo, a tentare di dividerli, la madre Giocasta, la sorella Antigone e l’indovino Tiresia. Affacciato sul mito il poeta Eschilo che fissa la scena e la tramanda ai posteri.
Quel delirio di morte, quella hybris violenta viene colta dallo scultore Pitagora di Reggio che la trasforma in bronzo realizzando un complesso di cinque statue di cui i Nostri sono ciò che – forse – resta. È questa in estrema sintesi l’affascinante teoria propugnata da un epigono di Eschilo, il professor Daniele Castrizio, reggino, docente di numismatica all’Università di Messina, membro del comitato scientifico del MArRC e ricercatore dell’essenza vitale dei Bronzi che trova in riproduzioni vascolari, testi e memorie documentali.Dell’identità delle due statue il professore è sicuro ma con altrettanta sicurezza manifesta la disponibilità a mettersi in discussione: «I denti della statua A, che rappresentano il tratto più evidente della smorfia sul suo viso, sono riconducibili a Polinice, l’unica statua giunta fino a noi che esprime in maniera così evidente un sentimento di ostilità».
C’è poi un altro elemento che – a suo avviso – definisce uno dei due come tiranno e l’altro come un esiliato: «Il bronzo B, che raffigurerebbe Eteocle, porta i segni della cuffia di cuoio chiamata kyne, che rappresentava l’emo dorico del re».
Quali altre certezze possiamo condividere?
«Se la mente creativa è stata una, a realizzare le due statue sono state persone diverse. Ci sono alcuni difetti in “A” che ritroviamo corretti nel bronzo B. Ci sono poi fonti convergenti che parlano del complesso statuario riconducibile alla tragedia dei sette contro Tebe presente con molta probabilità nel teatro di Pompeo a Roma».
La tappa romana delle due statue rappresenta un momento importante della loro prima vita. Perché?
«A Roma suscitarono una fortissima ammirazione e subirono con molta probabilità un intervento di restauro. La carica simbolica delle due statue era forse ancora più importante del loro valore estetico».
Cosa rappresentavano?
«Un ammonimento contro le guerre civili che avevano devastato Roma nel passato. Quel tipo di guerra evidenziava la storia dei due fratelli, non generava vincitori ma solo sconfitti».
Un ammonimento più attuale che mai…
«Andrebbero portate in tour fra Russia e Ucraina…».
Veniamo ai festeggiamenti per il ritrovamento. Qual è il valore di questa ricorrenza?
«Questo conquantenario è partito male e tardi ma ci sono state delle accelerazioni importanti che hanno visto la Regione come protagonista. La sfida vera era quella di vincere il campanilismo. Bisogna dare atto alla prof. Princi che si è sforzata di far capire che i Bronzi sono un attrattore importante per tutta la regione. Bisogna lavorare con maggiore intensità per farli percepire come patrimonio culturale. Su questo adesso mi sembra che si stia lavorando. La ricorrenza è servita a questo: fare emergere le contraddizioni che esistono. Dobbiamo remare tutti nella stessa direzione».
Cosa manca in tal senso?
«Ci manca una cultura della divulgazione. E le responsabilità partono dal ministero dei Beni culturali. La direzione in cui vanno le esposizioni museali è una direzione in cui la public history è fuori. Si parla solo dell’aspetto fisico. Non c’è un documentario o un libro sulla storia dei bronzi».
Possiamo dire che sappiamo tutto sui Bronzi?
«Assolutamente no. Se abbiamo indovinato l’identificazione e l’attribuzione siamo solo all’inizio. Le domande rappresentano altrettanti campi di esplorazione: qual era il tipo di base? Dove sono le armi? Chi le ha viste? Qual è stata la tecnica di fusione? Erano colorati? A Roma è rimasta qualche traccia? C’è poi un altro dubbio».
Quale?
«Non abbiamo mai saputo cercare veramente la nave che li ha trasportati. Potrebbe essere ancora in qualche punto del fondale di Riace. Forse si potrebbe ripartire da lì. E Per finire mi piacerebbe condividere una suggestione… Sarebbe bello che le due statue tornassero a guardarsi».
Chissà che magia ne potrebbe derivare…
GdS, 15/8/2022
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